giovedì 27 novembre 2008

Tutti a Berlino!

...cliccate sul titolo del post.

mercoledì 19 novembre 2008

Elogio dei “Non lo so...”

Il precedente sondaggio ha riscosso un discreto successo, probabilmente anche in virtù della sua impostazione. Per non rubare meriti che non ho, chiarisco subito che le varie opzioni sono tratte dal libro di R. Dawkins “L’illusione di Dio”, alle quali ho apportato delle lievi modifiche per renderle adatte al sondaggio. Le opzioni originali erano:

1. Teista forte. 100% di probabilità di Dio. Nelle parole di

C. G. Jung, "io non credo, io so".

2. Probabilità molto alta ma non 100%. Un teista di fatto.

"Non posso saperlo per certo, ma credo fermamente in

Dio e vivo la mia vita nell'assunzione che lui esista".

3. Più del 50% ma non molto alta. Tecnicamente agnostico

ma propende verso il teismo."sono molto incerto,

ma tendo a credere in Dio".

4. Esattamente 50%. Completamente agnostico ed imparziale.

"L'esistenza e l'inesistenza di Dio sono esattamente

equiprobabili".

5. Meno del 50% ma non molto bassa. Tecnicamente

agnostico ma incline all'ateismo. "Non so se Dio esista

ma tendono ad essere scettico."

6. Probabilità molto bassa, ma vicina allo zero. Un ateo di

fatto."non posso saperlo per certo ma credo che Dio sia

molto improbabile, e vivo la mia vita nell'assunzione

che lui non esista."

7. Ateo forte. "So che non esiste nessun Dio, con la stessa

convinzione con cui Jung sa che ce n'è uno".

Ho illustrato il risultato del sondaggio mettendo i sette risultati in ordine di teismo crescente, dalla posizione “0”, coincidente con la “7” dello schema di Dawkins, fino alla “6”, coincidente con la “1” di Dawkins. Quindi, fate bene attenzione, il grafico qui sotto non segue l’ordine di Dawkins citato sopra, ma il suo inverso.

Per quanto siamo tutti concordi che nella realtà le posizioni siano molto più sfumate e graduali, le sette opzioni coprono bene la gamma di variabilità esistente (parentesi per chi ha dichiarato che non esisteva la sua opzione: in realtà, essa esiste: se dichiari di essere Dio, allora sai che egli esiste, e quindi voti “6”... il che è molto contraddittorio se detto dall’autore di “nonloso”!).

Sebbene il campione non possa dirsi rappresentativo della popolazione totale, qualcosa si può ricavare.

Innanzitutto, questo risultato conferma un’osservazione dello stesso Dawkins (il numero tra parentesi quadra indicano le posizioni nel grafico):

Sarei sorpreso di incontrare molte persone nella categoria [0], ma la includo per simmetria con la categoria [6], che è molto ben popolata. È nella natura stessa della fede che uno sia capace, come Jung, di avere una credenza senza una ragione adeguata per farlo (Jung credeva anche che alcuni libri sul suo scaffale esplodessero spontaneamente con un sonoro bang). Gli atei non hanno fede; e la ragione da sola non può condurre nessuno alla totale convinzione che qualcosa non esista. Per questo motivo la categoria [0] è in pratica molto più vuota del suo corrispettivo, la categoria [6], che ha molti abitanti devoti. Io mi considero nella categoria [1], ma tendo verso la [0] ― sono agnostico ma solo nel senso in cui sono agnostico sull'esistenza delle fate del giardino.

Il sottolineato è mio.

In effetti, per quanto le posizioni “0” e “6” siano egualmente irrazionali, cioè basate su un atto di fede (presumo che nessuno dei votanti di quelle opzioni abbia delle prove dirette ed incontrovertibili a favore delle loro posizioni, perché in tal caso sarebbe interessante sapere quali siano), la “6” è ancora comprensibile per chi, come me, appartiene alle posizioni tra “1” e “5”, (ovvero, è consapevole di non saperlo con certezza ma nondimeno è in grado di prendere una posizione in base alle proprie convinzioni filosofiche, conoscenze e nozioni). Infatti, è plausibile che chi affermi con convinzione di sapere che Dio esista lo faccia sulla base di prove “positive” che egli ritiene di possedere (esperienza mistiche, prove ontologiche, ecc...). Ovviamente, per non essere ipocrita, chiarisco subito che ho dei fortissimi dubbi sull’effettiva validità di tali prove, che trovo assurde o palesemente infondate sul piano oggettivo: ma, nondimeno, le trovo sufficienti per giustificare le motivazioni soggettive di chi vota “6”. Al contrario, trovo la posizione “0” ancora più assurda, non tanto per il suo contenuto, quanto perché afferma di sapere che qualcosa non esiste! Come si fa a sapere che qualcosa non esiste? A meno di non ricavarlo razionalmente sulla base di un ragionamento per assurdo, la non-esistenza, in quanto affermazione negativa, non è affermabile con sicurezza, ma solo ipotizzabile sulla base dell’assenza di evidenze.

Esempio pseudo-idiota:

Io posso sapere che mio fratello esiste perché ne ho l’evidenza, ma, teoricamente, non posso affermare di sapere con la stessa certezza che non esista una mia fantomatica sorella... Come posso essere sicuro che mio padre, prima di sposarsi (o anche dopo, all’insaputa di mia madre) non abbia avuto qualche rapporto sessuale dal quale è stata concepita una mia sorella, che mi è stata tenuta all’oscuro? L’ipotesi, per quanto altamente improbabile sulla base della mia conoscenza di mio padre (ovvero: una tale eventualità mi pare aldilà delle capacità diaboliche di mio padre, a meno che egli non sia un grandioso genio del male...), non è impossibile, e quindi, non ha senso affermare che io so con certezza che la mia fantomatica sorella “Simona” non esista.

Pertanto, paradossalmente, le posizione “0” e “1” per quanto vicine, sono le più distanti: la prima è un’irrazionale affermazione di una negazione, la seconda è la consapevolezza che non esiste alcuna reale evidenza che possa farci affermare l’esistenza di Dio, e quindi la conclusione che non ha senso continuare ad affermare qualcosa in assenza di alcuna evidenza in suo favore.

Dato che questo post non discute l’esistenza o meno di Dio, ma solo la ragionevolezza o meno dei voti nel sondaggio, spero che non parta una discussione fuori tema...

giovedì 13 novembre 2008

Giornata mitica!

Ieri è stata veramente una bellissima giornata (nonostante sia novembre ed il cielo sia color cemento)!
Oltre all'episodio a cui accennavo nel precedente post, ho anche avuto la fortuna di vedere in super anteprima un fossile stupendo, del quale, per ora, non posso dire altro. Inoltre, a coronamento di una giornata speciale, la serata è stata l'occasione per una rimpatriata del pueblo, che non si aggregava per cene eque e solidali dai tempi del trasloco! C'era pure piui!
Fra, mancavi solo tu (mannaggia l'intreccià)!

Giornate così sono rare.

lunedì 10 novembre 2008

Battezza questo dinosauro ucronico!


La zoologia speculativa è già stata citata in questo blog, così come su Geomythology.
Qui sopra ho un ipotetico abelisauro semiacquatico vissuto 15 milioni di anni fa in un'altra dimensione spaziotemporale...
In analogia con quanto fatto da illustri blogger prima di me, chiedo ai miei lettori di suggerirmi un nome scientifico (in latino, ovviamente) con tanto di etimologia da dare a questa bestia...

Per favore, non chiamatela “cladistica”

La frase più famosa attribuita a Dobzhansky, uno dei fautori della sintesi neodarwiniana a metà Novecento, dice che in biologia nulla ha senso se non alla luce dell’evoluzione. Ciò è ancora più vero in paleontologia, dove il tempo, la dimensione nella quale si dispiega l’evoluzione, è fondamentale. Se accettiamo che l’evoluzione darwiniana è l’origine di una discendenza con modificazioni, allora l’evoluzionismo darwiniano non è altro che lo studio e la descrizione della serie di queste modificazioni nel tempo. Se il mondo in cui viviamo fosse un paradiso darwiniano ideale, allora potremmo osservare in natura l’intera gamma delle modifiche evolutive. Purtoppo, il mondo reale non è la realizzazione dei nostri sogni, e la natura ci mostra una serie discontinua e contraddittoria di morfologie, adattamenti e funzioni. Nondimeno, noi riconosciamo l’esistenza di un ordine sottostante la cacofonia delle forme ed il caleidoscopio degli adattamenti. Tale ordine ha un nome: filogenesi. Almeno per le forme di organismi complessi a riproduzione sessuata, noi assumiamo che le specie note non si distribuiscono a caso nello “spazio dei viventi”, ma tendono a collocarsi in regioni definite sulla base di reciproche affinità. Già Linneo, padre della sistematica biologica, aveva intuito ciò. Tuttavia, Linneo sviluppò il suo sistema naturale all’interno di un paradigma creazionista e fissista: le specie erano categorie immutabili e discrete, vere e proprie caselle gerarchizzate nelle ormai arcinote categorie linneane (specie-genere-famiglia-ordine-classe-tipo). La sistematica linneana, creata un secolo prima de “l’Origine delle Specie” di Darwin, è quindi una descrizione pre-darwiniana e non-evoluzionista della biodiversità. La sua persistenza dopo Darwin probabilmente è dovuta al fatto che, almeno a livello delle sole specie viventi, il sistema Linneano (creato appunto per catalogare le forme attuali, dato che Linneo non conosceva l’esistenza dei fossili) non risulta contraddittorio. Esiste qui una sorprendente analogia con la Fisica Newtoniana (cioè quella classica): sebbene sappiamo che essa non sia “vera” ed universale come ritenuto fino all’inizio del XX secolo (in quanto non è in grado di descrivere i fenomeni alla scala atomica e a quella cosmica con la stessa precisione che hanno invece la meccanica quantistica e la relatività einsteniana) essa conserva ancora una sua validità alla nostra scala di dimensione e velocità (nella quale non è possibile rilevare le sue imperfezioni). Analogamente, la sistematica linneana persiste perché va bene per le specie attuali (che osserviamo alla nostra scala temporale, nella quale i processi macroevolutivi sono praticamente inesistenti), ma è insoddisfacente per le scale evolutive, quelle della paleontologia. Quindi, se conveniamo che l’evoluzione biologica è l’ordine sottostante la molteplicità dei viventi è evidente che il sistema di classificazione linneano creato in epoca pre-evoluzionista non può essere un criterio soddisfacente per ricostruirla. Un ulteriore difetto del sistema linneano è che esso non stabilisce una procedura standard per l’istituzione delle categorie tassonomiche: generalmente, le categorie vengono istituite sulla base di numerosi criteri, spesso vaghi e soggettivi, che non possono essere valutati con un metodo quantitativo che permetta di “misurare” l’attendibilità di eventuali ipotesi in conflitto tra loro.

Il criterio da seguire per la classificazione dei viventi dovrebbe avere due requisiti per essere valido scientificamente: 1) dovrebbe essere coerente con i suoi scopi, cioè basarsi sulla stessa dinamica che noi attribuiamo all’evoluzione, ovvero, dovrebbe fondarsi sulla comparsa di discendenza con modificazioni; 2) dovrebbe seguire un protocollo di procedure formalizzate, così che possa essere soggetto allo stesso tipo di controllo di cui sono oggetto tutte le ipotesi scientifiche.

Tale criterio esiste, ed è alla base della sistematica filogenetica, il sistema di classificazione che da alcuni decenni sta sostituendo l’obsoleta gerarchia linneana.

La sistematica filogenetica è una teoria evoluzionista matura: come tutte le teorie scientifiche essa ha dei limiti di applicazione, oltre i quali non ha senso che sia utilizzata, ha una procedura standard ripetibile da più ricercatori indipendenti tra loro, ed un criterio quantificabile di controllo e verifica: non è quindi una “scienza mistica”, difficilmente testabile, come è invece la sistematica linneana, la quale, mancando di un metodo uniforme di produzione delle ipotesi, è sempre stata appannaggio di pochi “esperti” difficilmente smentibili (quest’ultimo è il solo motivo per cui, apparentemente ed erroneamente, la sistematica linneana appare ad alcuni più “solida”: perché ha sempre avuto un’impronta “dogmatica” ed indiscutibile, non certo perché fosse più coerente con i dati).

Nell’immagine, un esempio della differenza fondamentale tra ipotesi evolutive basate su un approccio linneano e quelle basate sulla sistematica filogenetica: entrambi i diagrammi rappresentano la stessa filogenesi, ed esprimono lo stesso concetto (la natura monofiletica dei dinosauri all’interno degli arcosauri), pertanto, non è il risultato che le distingue. La differenza sostanziale è data dal metodo. Il diagramma di Bakker & Galton (1974) propone alcuni gruppi la cui natura monofiletica non è chiara, né viene testata (“Thecodonts”, “Ornithopods”, “prosauropods”), inoltre, non è specificato quale grado di “robustezza” caratterizzi i vari raggruppamenti, né viene fornita una descrizione dettagliata dei caratteri utilizzati (il testo descrive sommariamente alcuni caratteri a sostegno dell’ipotesi, ma non mostra l’intera serie delle evidenze). Il diagramma di Benton (1999) propone la stessa filogenesi, ma nella quale tutti i gruppi inclusi sono strettamente monofiletici (i gruppi “ambigui” come i “tecodonti” sono stati suddivisi in sottogruppi distinti chiaramente monofiletici), tutti i caratteri inclusi vengono descritti nell’articolo e mappati (nella matrice in basso) così da permettere a chiunque di controllarli, e nell’albero vengono evidenziati i gradi di “robustezza” dei gruppi ottenuti (i numeri vicino ai nodi sono % di frequenza nei test di controllo che esprimono proprio tale “robustezza”). Inoltre, viene esplicitato su quali basi alcuni caratteri siano significativi (perché apomorfici) oppure no (perché plesiomorfici).

Cosa implicano queste differenze di approccio? L’albero di Bakker & Galton non è testabile da eventuali critici: data la sua impostazione, esso può solo essere “accettato o rifiutato” senza discussione (ovvero, lo si accetta/rifiuta solo in base alla fiducia/sfiducia nell’autorità di Bakker & Galton). L’albero di Benton è invece testabile da eventuali critici: i caratteri citati nella matrice possono essere controllati (sui fossili citati), la matrice può essere ripetuta e ri-analizzata più volte separatamente, le eventuali ambiguità nelle distribuzioni dei caratteri possono essere individuate e corrette: tale ipotesi è quindi accessibile ai ricercatori, i quali non l’accettano/rifiutano in base all’autorità di chi la propone, ma in base ai dati, ai metodi proposti ed ai risultati quantificabili.

Ripeto: non sono gli eventuali risultati a fare la differenza tra metodo linneano e filogenetico (infatti, nell’esempio i due diagrammi sostengono la stessa idea, cioè la monofilia di Dinosauria), ma i metodi usati. Ovvero, la metodica della sistematica filogenetica, fornendo ipotesi ripetibili e quantificabili, è molto più scientifica della linneana.

Per chiudere, se potete, evitate di chiamarla “cladistica”: termine erroneo e riduttivo nei confronti di una metodologia sistematica multidisciplinare, che non si limita (come invece pensano erroneamente alcuni critici) a costruire cladogrammi.

Bibliografia:

Bakker & Galton, 1974 - Dinosauri Monophyly and a New Class of Vertebrate. Nature, 248: 168-172.

Benton, 1999 - Scleromochlus taylori and the origins of pterosaurs and dinosaurs. Phylosophical Transactions of the Royal Society of London, 354: 1423-1446.

giovedì 6 novembre 2008

Invidia della mammella


Post Ultramitologico della settimana, che temo verrà frainteso da alcuni.

Credo che fu Freud a coniare il termine “invidia del pene” per interpretare alcuni aspetti della psicologia infantile femminile. Non sono psicologo, quindi sarò lieto di ricevere eventuali correzioni per quanto ho appena scritto. Ad ogni modo, in questo post non parlerò di psicologia infantile, o quasi...

L’oggetto del post sei tu, sì proprio tu, appassionato di dinosauri affetto da un’interessante modalità interpretativa che battezzo qui “Sindrome di Owen-Bakker” (SOB), o, più semplicemente, “invidia della mammella”.

L’invidia della mammella si manifesta con un ossessivo abuso di analogie mammaliane nella descrizione dei dinosauri. Tale “ossessione” ha ovviamente come corollario necessario un’intolleranza verso la filogenesi e le sue metodiche, dato che esse, rimarcando la natura ornitodirana (cioè di arcosauri con bauplan aviario*) dei dinosauri, contrastano vigorosamente le tendenze insite nella SOB. Al contrario, il “SOBista” ha una smodata passione per le analogie ecologiche. Tuttavia, e qui si evidenzia proprio la SOB, l’ecologia non viene citata in maniera corretta, ovvero rifacendosi a categorie ecologiche teoriche (quali, produttori, consumatori, simbionti, ecc...), bensì richiamando direttamente dei taxa di mammiferi attuali, quasi che questi ultimi siano gli “olotipi” delle categorie ecologiche. Io non avrei alcun problema ad accettare argomentazioni ecologiche basate su categorie generali, ma detesto fortemente le analogie mammaliane: esse sono fuorvianti, banali e semplicistiche, nonché prive di rigore scientifico (come spiegherò in fondo).

Breve carrellata di tipiche espressioni da SOBista:

Tyrannosaurus cacciava come una tigre, non come i leoni.

Spinosaurus pescava come un orso.

Gli abelisauri erano le iene del Cretacico.

Le mandrie di adrosauri, i bisonti dell’epoca...

I ceratopsi erano animali bellicosi, come i rinoceronti e i bufali.

Protoceratops era il cinghiale della sua epoca.

I sauropodi si spostavano in branchi, come gli elefanti.

Hypsilophodon, la gazzella del Cretacico.

Una muta di Deinonychus, simile ad gruppo di licaoni...

I branchi di ceratopsi probabilmente proteggevano i giovani formando un cerchio attorno a loro, come fanno i bisonti... (ammettiamo provvisoriamente che quanto detto sui bisonti sia vero).

Brachiosaurus era la giraffa del Giurassico.

I tyrannosauridi cacciavano in gruppi familiari, simili ai lupi.

Un cucciolo di dinosauro (Questa ultima è la più evidente forma di SOB: immaginate di dire “cucciolo di coccodrillo”, oppure “cucciolo di struzzo”, probabilmente sentirete quanto stonino, proprio come dire “pulcino di leone” o “avannotto di delfino”... eppure, per i dinosauri non si fa una piega!).

Provate a rileggerle alla luce della SOB: non vi paiono ora delle forzature semplicistiche?

Come si può paragonare un bipede oviparo di sei tonnellate (Tyrannosaurus rex) a quadrupedi vivipari di 250 kg (Pantera tigris e P. leo), e concludere che il primo è la versione cretacica di uno dei due secondi? Il solo fatto in comune è che sono carnivori. Basta tale analogia (per di più clamorosamente grossolana, dato che la maggioranza delle linee evolutive di vertebrati terrestri è carnivora) per giustificare un collegamento ecologico tra i due? A costo di risultare saccente, rispondo che una discreta conoscenza dei dinosauri porta a rispondere: NO! Le differenze fisiologiche, riproduttive, generazionali, popolazionistiche ed ecosistemiche sovrastano la grossolana somiglianza alimentare, e ci portano a bollare l’affermazione SOB come una misera semplificazione, ovvero, una banalizzazione inutile.

Da dove nasce l’invidia della mammella? Perché i SOBisti non si limitano a usare termini ecologici generali, “neutri”, per descrivere le ecologie dei dinosauri, invece di abusare di paragoni mammaliani più fuorvianti che necessari?

Penso che ciò derivi da due fattori, uno dei quali è all’origine dell’invidia della mammella.

Primo: L’ignoranza nei confronti dell’enorme mole di caratteri ornitici presenti in tutti i dinosauri, a differenti gradi di modificazione: tale ignoranza impedisce di apprezzare pienamente l’unità morfologica degli arcosauri, dai coccodrilli agli uccelli, passando per i crurotarsi basali, gli ornitischi, i sauropodomorfi ed i teropodi mesozoici.

Secondo: Il persistere di uno stereotipo archetipico risalente a Richard Owen, che nell’istituzione del termine “dinosauro” lo definì come una forma di rettile superiore “ricalcato” sui mammiferi. Ciò si riconduceva a sua volta alla semplicistica (nonché mitologica) Scala Naturae, che poneva il “modello rettiliano” ad un livello inferiore a quello “mammaliano”.

Se abbiamo abbandonato la Scala Naturae come descrizione della molteplicità biologica, se abbiamo scoperto l’unicità del bauplan dinosauriano (avente gli uccelli non come una sua modificazione estrema ed aberrante, bensì come una variante tra le sue numerose versioni egualmente evolute), non abbiamo più alcun motivo per nutrire un’invidia della mammella.

*Per bauplan aviario intendo dire che il piano generale di organizzazione corporea di TUTTI i dinosauri è riconducibile allo stesso piano di organizzazione corporea che oggi osserviamo solo negli uccelli. Per quanto animali come Triceratops, Diplodocus ed un uccello possano sembrare differenti e inconciliabili dal punto di vista morfologico, le loro anatomie sono tutte riconducibili allo stesso bauplan (che chiamo “aviario” unicamente perché oggi tale bauplan è espresso solo negli uccelli, non perché voglio “forzare” un ceratopso ad essere un pollo gigante; un’espressione ugualmente valida è dire che gli uccelli hanno un bauplan pienamente dinosauriano): i dettagli nell’anatomia scheletrica, nel sistema muscolare, riproduttivo e polmonare che noi possiamo ricavare scientificamente dai fossili confermano questa interpretazione. Può sembrare assurdo per chi guarda questi animali con occhio di profano, ma un sauropode è più simile ad un piccione che ad un coccodrillo o ad un elefante.

mercoledì 5 novembre 2008

Falsificazionismo di coppia

Novembre, mese di anniversari rovesciati, l’ideale per parlare di procedure sentimentali...

Molti di noi si struggono inutilmente a causa di falsi valori, o perché indottrinati da mitologie, idealismi o, semplicemente, per l’effetto di errori madornali.

Un mito fonte di molte angosce, sopratutto tra adolescenti di ambo i sessi, giovani donne ed abruzzesi armati, è quello del “partner ideale”. (Ringrazio la metà eusarda del mio genoma per rendermi così poco incline agli ideali).

In questo post ultrazionalmente demenziale analizzerò i motivi per i quali l’idea del “partner ideale”, ed i metodi in base ai quali si ricerca tale chimera mentale, siano epistemologicamente fallimentari.

Karl Popper aveva visto giusto nel definire il criterio falsificazionista come più solido di quello verificazionista per l’identificazione di una teoria scientifica. Analogamente, ritengo che la ricerca del partner non debba essere guidata da un approccio verificazionista, bensì, su una sana pratica falsificazionista. Ovvero, nemmeno nell’ipotesi di trovare un individuo che presenti tutti i tratti presunti “ideali” (in base ai propri gusti) si può avere la certezza che tale persona sia quella giusta. Da ciò, inevitabilmente, nasce la delusione in tutti quelli che si affidano a tale metodo di ricerca.

L’approccio falsificazionista è più pratico e meno deludente: forse non si può trovare il partner “ideale”, ma sicuramente si scopre immediatamente chi non potrà mai essere tale partner ideale. (So che la soluzione di tutto il discorso è semplicemente l’abbandono dell’idea di “partner ideale”, peccato che per molti, plagiati dall’idealismo, tale soluzione sia assolutamente inconcepibile, impraticabile ed abominevolmente insopportabile... ma andiamo avanti col ragionamento...).

Esempio stupido n° 1 (ma basato su personaggi reali): La tua donna “ideale” è maggiorata? Forse nessuna donna maggiorata che incontrerai sarà mai veramente la tua donna ideale, ma sicuramente sai che una donna con una prima di reggiseno NON sarà la tua donna ideale.

Esempio stupido n° 2 (ma basato su personaggi reali): Il tuo uomo ideale è un calciatore? Forse nessun calciatore reale che incontrerai sarà mai veramente il tuo uomo ideale, ma sicuramente sai che un uomo che non gioca a calcio NON sarà il tuo uomo ideale.

Sarei tentato di estendere il metodo falsificazionista utilizzando non tanto le presunte caratteristiche ideali elaborate dalla mente, quanto le esperienze reali vissute... in tal caso, non posso sapere quali saranno le caratteristiche della mia possibile partner “ideale”, ma sicuramente so quali NON devono essere le sue caratteristiche, perché sono comparse più volte in passato (ad esempio, non dovrebbe essere nata all’estero, non dovrebbe avere un pessimo padre, non dovrebbe essere rigida mentalmente, non dovrebbe essere tennista, non dovrebbe essere ballerina, non dovrebbe tingersi i capelli con colori esagerati, non dovrebbe non sapere il significato della parola “surrogato”, non dovrebbe essere vegana/animalista...).

In realtà, tutte le donne a cui sto alludendo sono accomunate solamente da un unico tratto, il quale, quindi, probabilmente è il solo marcatore sicuro in base al quale capire in futuro se una donna non è quella giusta. Interessante che questo tratto non sia presente solo nelle mie esperienze passate, ma sia applicabile a tutte le esperienze passate di tutti, sia uomini che donne (e quindi, permette di elaborare una Legge Generale, la quale definisce il tratto universale in base al quale tutti possono riconoscere subito se un potenziale partner sia o meno quello “ideale”...).

Qual è questo tratto?

Rullo di tamburi...

Legge sull’Esistenza del Partner Ideale

Assioma di partenza: Il tuo partner ideale sta con te (se non avesse questo attributo, non sarebbe il tuo partner ideale, ma quello di altri).

Applichiamo l’approccio falsificazionista per escludere quelli che non possono essere i tuoi partner ideali. Dato che il partner ideale deve avere, tra le proprie caratteristiche, quella di stare con te, se ne deduce che tutte le passate esperienze, essendo finite, sono con persone che non stanno con te, e quindi non sono la condizione ideale. Pertanto, tutte quelle esperienze saranno accomunate da un qualche tratto che necessariamente le rende non-ideali. L’unico tratto in comune a tutte le tue esperienze passate è che uno dei due partner sei tu. Perciò, lo stare con te è l’attributo che rende il partner non ideale. Ovvero: il tuo partner ideale non può necessariamente stare con te.

Ma ciò contraddice l’assioma di partenza.

Conclusione: il partner ideale non esiste.