giovedì 26 aprile 2007

(S)proporzioni festive

Come nel caso dei papati, dopo un post molto lungo, uno breve...
Se si assume che la moderna social-liberal-democrazia altro non è che una versione laica e mondana degli ultraterreni paradisi dei credi monoteismi, e se è evidente che in Italia i due termini del paragone di sopra sono la Repubblica post-fascista e la Chiesa Cattolica, allora è sensata la seguente (s)proporzione:
25 dicembre: 25 aprile = 1 gennaio: 1 maggio.
Ergo: il 25 aprile è un natale capodannesimo del primo maggio.
Buone manifestazioni, grigliate e concerti...

lunedì 23 aprile 2007

Il fascino irresistibile della nostra (presunta) superiorità

Con questo post si inaugura un filone particolare dell’Ultrazionale, il suo sancta sanctorum: qui battezzato “Doctor Kause - Paleontological Division”, palese parodia del noto telefilm. Per agevolare la fruizione, ogni nuovo post di questo filone sarà sempre accompagnato dal logo:In questo sotto-livello dell’Ultrazionale si parla principalmente di Storia Naturale, in particolare di paleontologia (“lo studio dell’essere antico”), ma sotto un’ottica più generale, “interdisciplinare”. Ovvero, quanto la Storia Naturale ci aiuta nella comprensione dell’uomo, della sua “natura” e del suo “senso”? Aldilà delle squisite informazioni anatomico-funzionali che ci dà la scienza naturale, cosa possiamo comprendere della “cultura” umana attraverso il filtro naturalistico? Se vi riconoscete nelle conclusioni dei precedenti post, allora converrete che le vecchie mitologie cosmogoniche e antropocentriche delle religioni tradizionali possono (anzi, devono) essere sostituite dalle moderne cosmologie e cronologie naturalistiche nel ruolo di fondamenti della Civiltà.
In questo primo caso, più dei fatti paleontologici diretti, l’oggetto della discussione sarà la loro interpretazione, o, meglio, il modo con il quale i nostri preconcetti distorcono la valutazione e l’interpretazione delle evidenze.
Abbiamo appena detto che è necessario sostituire le vecchie cosmogonie con la moderna Storia Naturale: ciò implica anche il superamento dell’impostazione moralistica che tende (a seconda dell’interpretazione che si dà all’attuale) a idealizzare il passato in opposizione al presente: se si detesta l’oggi, allora il passato è “l’età dell’oro”, i “bei tempi”; se si ha un’impostazione progressista e ottimisticamente (ingenuamente) proiettata al futuro, allora il passato è l’età buia e arretrata, l’errore ed il caos primigenio. Purtroppo, anche in molti di quelli che hanno riconosciuto la validità della Storia Naturale come spiegazione alternativa delle origini, l’impostazione moraleggiante che idealizza il passato tende a permanere, producendo astruse distorsioni delle evidenze. In particolare, la consapevolezza che l’umanità esiste da un tempo infimo della Storia Totale (come evidenziato nel precedente post “Egocentria Genetica”) deve risultare particolarmente fastidiosa in tutti i malati di antropocentrismo, che continuano a volersi sentire “necessari”, “previsti” e “inevitabili”. La soluzione contorta che essi tendono a inventare è la favola bio-progressista, la versione finalista dell’evoluzionismo biologico. Essa afferma che la comparsa dell’umanità era inevitabile proprio in virtù delle leggi dell’evoluzione: se l’evoluzione è sopravvivenza del più adatto, e l’uomo è il più adatto/adattabile degli esseri viventi, allora l’evoluzione non sarebbe altro che la dimostrazione del cammino necessario verso la nostra inevitabile esistenza. Partendo da questo preconcetto egocentrico (e miope), tutta la storia pre-umana può essere distorta a nostro uso e consumo (consolatorio). Fortunatamente, tra i ricercatori questo modo di vedere è stato superato, e più nessuno crede di vedere negli eventi del passato remoto una necessaria anticipazione della nostra comparsa. Al contrario, nella nebulosa galassia della divulgazione e del giornalismo scientifico il pregiudizio permane: la distorsione delle evidenze si attua con la manipolazione di tutti quei casi della Storia che non rientrano nella nostra antropocentrica attesa di linearità storica, oppure con la palese esaltazione di quelli che possono avvalorare la consolante premonizione della nostra esistenza. Ad esempio, la storia degli insetti non è quasi mai citata: eppure da soli essi riempiono l’80% delle specie animali note, e probabilmente occupano questa quota da quando hanno le ali. Forse perché in animali così lontani e poco umani non si riesce a trovare qualcosa di affine, di nostro? Di fatto, gli eventi della storia degli insetti ricordati sono i soliti due: acquisizione del volo nel Carbonifero (con solita immagine delle libellula gigante) e coevoluzione con le piante a fiori nel Cretacico. Punto e basta: trecentocinquanta milioni di anni e chissà quante decine di milioni di eventi evolutivi ridotti a due citazioni ai margini della Storia (quella che porta a Noi).
Ma il vero apice della manipolazione è negli equivalenti moderni dei draghi e dei giganti mitologici (ennesima prova che l’impostazione favolistica non è ancora morta), negli unici animali fossili che siano noti a più del 1% della popolazione: i dinosauri mesozoici. L’elenco delle distorsioni concettuali applicate a questo clade di vertebrati è infinita (proprio ieri ho sentito in un TG un giornalista parlare dei vertici della Federcalcio come di “Dinosauri”, per intenderci: di esseri vecchi e “superati” non al passo coi tempi). In parte, ciò si può spiegare considerando che le nuove scoperte scientifiche iniziano a diffondere nel resto della società con un ritardo di almeno una generazione, e che, pertanto, la vulgata attuale sui dinosauri non è altro che la fedele trascrizione dell’impostazione scientifica di mezzo secolo fa, quando dinosauro era quasi universalmente riconosciuto come un “grande rettile estinto... ovviamente estinto nella competizione con i più evoluti mammiferi, nostri parenti ed antenati remoti”.
(Oggi la paleontologia ha riconosciuto l’errore insito nell’impostazione antropocentrista e non valuta più gli eventi in maniera così sciovinista. Al contrario, negli ultimi 25 anni una mole gigantesca di nuovi dati ha evidenziato che i dinosauri rappresentano uno dei massimi successi evolutivi della storia dei vertebrati: essi produssero soluzioni biomeccaniche e fisiologiche mai sperimentate nei mammiferi, e generarono il gruppo di vertebrati attualmente al secondo posto come numero si specie -al primo stanno gli abbondantissimi e variegati pesci attinopterigi-: gli uccelli, che con almeno 10 mila specie sono più del doppio del bestiario mammaliano).
Tornando alle manipolazioni giornalistico-divulgative, l’esempio più stucchevole di questa visione distorta viene da recenti scoperte effettuate in Cina. Nel 2005 alcuni paleontologi cinesi descrissero una nuova specie di mammifero mesozoico, Repenomamus giganticus, vissuto circa 125 milioni di anni fa. Come indica il nome specifico, questa specie è la più grande tra tutte quelle di mammiferi mesozoici noti. Dato che la maggioranza dei mammiferi mesozoici era grande come un grosso topo (e considerando la taglia di altri vertebrati dello stesso periodo), il termine giganticus va preso con le dovute precauzioni: tradotto in misure assolute, R. giganticus era un animale lungo circa un metro e venti centimetri, con una testa di circa 16 cm. Per gli standard mammaliani del Mesozoico è notevole, anche se alquanto modesto rispetto ai mammiferi predatori cenozoici. Aldilà della taglia dell’animale, ciò che ha destato l’interesse dei giornalisti scientifici (di solito, purtroppo, poco interessati ai mammiferi fossili) fu il titolo col quale i ricercatori cinesi pubblicarono la loro scoperta sulla prestigiosa rivista Nature. Andando per gradi, alcune ossa di un secondo animale furono rinvenute all’interno del ventre dello scheletro di R. robustus (una specie simile ma lunga solo 2/3 di R. giganticus): la loro posizione non lasciava molte alternative all’interpretazione che fossero le ossa dell’ultimo pasto del Repenomamus. Una volta analizzate, si rivelarono quelle di un esemplare giovanile di Psittacosaurus, il più diffuso dinosauro erbivoro di quei tempi in Asia Orientale. Un adulto di Psittacosaurus non superava il metro e mezzo di lunghezza, quindi, a maggior ragione, uno giovane poteva benissimo essere il pasto (predato o come carogna, non sapremo mai) di Repenomamus. Questi i dati. Essi non hanno nulla di particolarmente clamoroso, dato che evidenziano le interrelazioni ecologiche tra prede e predatori di un ecosistema del passato e le somiglianze con quelli attuali: usando mammiferi e dinosauri attuali (uccelli) di taglie comparabili a quelle di Repenomamus e Psittacosaurus, il rapporto taglia tra predatore e preda è simile a quello tra una volpe e un grosso uccello da cortile, come un tacchino: il primo non disdegna minimamente i pulcini del secondo (se nessun cane o fattore si mette in mezzo).
Passando alla divulgazione giornalistica, ecco la manipolazione antropocentrica. Nello stesso numero di Nature che descriveva i Repenomamus è presente, nella sezione News & Views, un breve articolo divulgativo di commento della scoperta. Dopo il riassunto dei dati e delle implicazioni paleontologiche della scoperta, l’articolo dà una curiosa estrapolazione evoluzionistica dei dati:

“Hypotheses developed to explain the evolution of mammalian size often focus on
dinosaurs. The most frequently repeated speculation is that Mesozoic mammals
were forced to remain small by a combination of heavy predation pressure
from
dinosaurs and the saturation of ecological niches by large reptiles.”.

Questa ipotesi ha senso solamente se si assume “a priori” che i mammiferi debbano essere il gruppo “dominante” in qualunque contesto, e quindi è necessario invocare una qualche causa per la loro “inattesa” non-dominanza negli ecosistemi mesozoici: indipendentemente dal valore che si può dare a questa ipotesi, essa è chiaramente il riflesso di un pregiudizio pseudo-evoluzionistico. Difatti, nessuno sembra mai porsi il perché i rettili squamati (“lucertole” e serpenti) nel mesozoico non raggiunsero nemmeno loro la taglia degli arcosauri (coccodrilli e dinosauri): evidentemente, in questo caso il pregiudizio che guida è l’opposto di quello che sembra imporre la domanda per i mammiferi.
Il testo prosegue più avanti con:

“It seems likely that small dinosaurs experienced predation pressure from mammals. Indeed, in describing the diminutive Sinovenator changii, which lies
evolutionarily at the base of a lineage closely related to that of birds, Xu et al. (2002) express surprise that, although the avian lineage continued an evolutionary trend towards small size, closely related dinosaurian lineages became larger again”.

La prima frase è una semplice constatazione dell’evidenza emersa con Repenomamus, e come accennato prima, non implica nulla più di quanto suggerissero già le teorie delle dinamiche ecologiche, cioè l’esistenza di complesse catene trofiche negli ecosistemi, oggi come 125 milioni di anni fa.
Il resto è un’estrapolazione gratuita basata su un’incompleta (e forzata) interpretazione dei dati:
Sinovenator è un dinosauro teropode appartenente al gruppo più strettamente imparentato con gli uccelli. Oltre ad essere contemporaneo e “conterraneo” di Repenomamus, Sinovenator è uno dei più primitivi rappresentanti del gruppo dei troodontidi. La caratteristica interessante di Sinovenator (e di altri troodontidi primitivi) è che esso è più simile agli uccelli primitivi rispetto a quanto sembrino i troodontidi più evoluti: sia nella taglia che nella morfologia dello scheletro, esso ricorda molto gli uccelli primitivi come Jeholornis, vissuto nella stessa epoca, meno dei troodontidi più evoluti, come Troodon, che sono più grandi e con una morfologia meno “da uccello”. Ciò è semplicemente in accordo con il concetto di evoluzione: se due gruppi strettamente imparentati tendono a divergere morfologicamente nel tempo, ne deriva che i loro rispettivi rappresentanti primitivi si assomiglieranno tra loro più di quanto si assomiglino tra loro le forme successive di ambo i gruppi, entrambe più evolute (= più modificate rispetto alla comune condizione primitiva; vedere il post “Evoluto un corno”).
L’idea che gli uccelli mesozoici seguano un trend verso la riduzione della taglia è un semplicismo “riduttivo” della diversità avicola mesozoica: non tutte le specie note sono sempre più piccole della taglia dei loro antenati (ad esempio, gli euorniti Yanornithidi e gli enantiorniti Avisauridi sono uccelli mesozoici più grandi degli euorniti primitivi e degli enantiorniti primitivi).
La conclusione della citazione di sopra, infine, è l’obiettivo della mia critica, la dimostrazione dello sciovinismo mammaliano:


“Maybe these small dinosaurs got larger — or got off the ground — to avoid the
rapacious mammals”.
A parte l’assurdità di usare un legame preda-predatore tra un mammifero ed uno Psittacosaurus (dinosauro ornitischio ceratopso) per dedurre qualcosa sull’evoluzione di uccelli e troodontidi (dinosauri sì, ma saurischi paraviali, quindi morfologicamente ed ecologicamente ben diversi da Psittacosaurus), cosa implica l’affermazione appena riportata? Essa vede l’acquisizione di una taglia maggiore (nei troodonti evoluti) e lo sviluppo del volo arboricolo (negli uccelli) come prodotti dalla selezione operata dai mammiferi predatori sui piccoli teropodi. In pratica, assume che i comportamenti predatori di un numero ristretto di specie di mammifero siano sufficienti per indurre/produrre (e quindi spiegare) ampie trasformazioni in interi gruppi di altre specie (non bisogna dimenticare che di mammiferi mesozoici grandi come Repenomamus se ne conoscono pochi, e appare plausibile che queste specie “giganti” fossero effettivamente poche rispetto alla maggioranza dei mammiferi). Basare l’origine di due eventi macroevolutivi (fenomeni che si dispiegano in decine di milioni di anni) sull’estrapolazione di un solo evento di predazione individuale rinvenuto in un mammifero (per giunta esponente della minoritaria taglia “extralarge”) può solo spiegarsi con la nostra volontà di attribuire ai membri della nostra stirpe (in questo caso la nostra stirpe è l’intero Mammalia) un “valore” evolutivo particolare, una capacità di incidere sul resto della biosfera con una forza maggiore rispetto ad altre stirpi; ovvero si fonda su un pregiudizio di “superiorità” evolutiva. Dare credito a questa consolante visione dell’evoluzione sarebbe assurdo come darlo all’ipotesi (ugualmente “legittima”) di vedere nelle tracce di predazione da parte dei leopardi sui crani di Australopithecus africanus la causa che generò l’evoluzione umana! Nel secondo caso appare subito palesemente assurdo perché ci risulta più spontaneo cercare un complesso di cause (sopratutto cause attive e “nobili”) alla base della nostra evoluzione, mentre applichiamo tranquillamente una logica distorta (spesso a vantaggio dei nostri parenti/antenati) per l’evoluzione di altri gruppi.
Accenno solo le successive degenerazioni divulgative (in riviste scientifiche di serie B, e da lì in rete e nei telegiornali), nelle quali Repenomamus è citato addirittura come possibile causa dell’estinzione dei dinosauri (!): qui lo sciovinsimo mammaliano tocca la vetta, perché cerca di dare nuovamente credito ad un’illogica teoria del secolo scorso che vedeva nei mammiferi, predatori di uova (...mai provato che lo fossero), la causa dell’estinzione dei dinosauri (ipotesi che non reggeva allora, non potendo spiegare come mai uccelli, coccodrilli, squamati e tartarughe, che anch’essi depongono uova, si salvarono; ma che comunque non regge assolutamente oggi che sappiamo che i dinosauri praticavano intense cure parentali). Usare Repenomamus è ridicolo anche solo dal punto di vista cronoLogico: gli anni trascorsi tra la sua epoca (125 milioni di anni fa) e l’estinzione dei dinosauri mesozoici (65 milioni di anni fa) sono 60 milioni! Ovvero, seguendo la stessa logica, giacché io un giorno ho visto un gatto con un passero in bocca, allora ne devo dedurre che tra 60 milioni di anni gli uccelli si estingueranno per competizione coi mammiferi! (Piccola nota: Repenomamus appartiene ad una linea evolutiva di mammiferi che non ha rappresentanti viventi e che probabilmente si estinse decine di milioni di anni prima della fine del mesozoico). Credo che in questo caso per interpretare queste “mal-divulgate” sia sufficiente invocare l’ignoranza e la grossolanità di chi ricopia le notizie da altre fonti rimasticate, più che il pregiudizio sciovinista.
Per chi non fosse ancora convinto della mia argomentazione, il finale:
Nel 1998 è stato descritto un dinosauro teropode, battezzato Sinosauropteryx prima, il primo fossile di dinosauro (che non fosse un uccello) a conservare traccia di (proto)piumaggio, proveniente da strati quasi della stessa età di quelli del R. giganticus. Dato importante qui, nella cavità addominale di uno scheletro di Sinosauropteryx furono trovate ossa di uno squamato (una “lucertola”), anche in questo caso l’ultimo pasto dell’animale.
Come potremmo “interpretare” questa scoperta, in analogia con quella di Repenomamus? Dato che anche i primi serpenti (discendenti da squamati “lacertiliani”) risalgono al Cretacico Inferiore, potremmo citare Sinosauropteryx come prova che i serpenti si sono evoluti dalle “lucertole” per risposta adattativa all’intensa predazione dei dinosauri teropodi? Non ho dubbi che una simile ipotesi evolutiva (e la mente che la affermasse) sarebbe considerata molto ingenua e bizzarra, per non dire peggio. Essa è sì ipotizzabile, ma è praticamente indimostrabile e teoricamente insostenibile. Sinosauropteryx non è mai stato citato (giustamente) come prova che i dinosauri carnivori avrebbero potuto agire selettivamente sull’evoluzione degli squamati, per l’ovvia ragione che non è possibile fare estrapolazioni macroevolutive sulla base di singoli eventi alla scala individuale. Eppure, nel caso di Repenomamus è stato fatto.
Solamente la persistenza di obsolete teorie pseudo-evolutive (figlie di obsoleti sciovinismi pro-mammaliani) può spiegare le differenze nei modi di vedere/divulgare due prove paleoecologiche analoghe. Ed il perché di tale persistenza è totalmente a-scientifico: è un pregiudizio ibrido, che fonde un’impostazione “archetipica” (che dà un’intrinseca -e indimostrabile- superiorità adattativa a qualunque animale che sia etichettato come “nostro simile”, in questo caso un mammifero nel mesozoico) con un’irrazionale bisogno di giustificare la nostra esistenza anche in contesti nei quali non avrebbe senso cercarla.

Bibliografia utile:
Cheng et al. (1998). An exceptionally well-preserved theropod dinosaur from the Yixian Formation of China. Nature 391: 147-152.
Hu et al. (2005). Large Mesozoic mammals fed on young dinosaurs. Nature 433: 149-152.
Weil (2005). Living large in the Cretaceous. Nature 433. 116.
Xu, et al. (2002). A basal troodontid from the Early Cretaceous of China. Nature 415: 780-783.

venerdì 20 aprile 2007

Essere un A4

L’avevo accennato nel precedente post, ed ora ne parlo.
Con questo termino (almeno per ora) la semiserie (semiseria) su Fede e Ragione.
Miei illustri predecessori l’hanno espresso più volte, e nei modi più disparati: l’umanità si può dividere in categorie sulla base della razionalità (categorie determinabili secondo criteri differenti, che spesso producono sottoinsiemi sfumati, ma chiaramente sovrapponibili): riducendo a dicotomia, i credenti e i non credenti.
Tutti crediamo in qualcosa, è inevitabile (già il solo fatto che al mattino si scenda dal letto senza controllare prima che il pavimento esista "ancora" è un'atto di fede: si dà per scontata l'oggettività del mondo esterno a noi): ciò che distingue le varie forme di credo è solamente la quantità di concetti che si assume come verità non-analizzabile (quindi la forza/intensità/inclusività della credenza).
Data questa premessa, io tendo a fondere le varie versioni di credo sotto una visione generale, (con una generalizzazione che a molti può dar fastidio).
Per “credere” intendo: assumere come dato di certezza ciò che si riconosce come non analizzabile.
Per credenti intendo i creduloni, i religiosi/adepti (di tutte le fedi e ideologie) e gli atei (stupiti da quest’ultima affermazione?).
All’estremo della creduloneria, appena prima dei bambini/semplici(otti)/idioti, abbiamo l’Ultracredente, il fratello minore del Reificatore Estremo (vedere precedenti post). Egli assume la propria capacità conoscitiva come illimitata, quindi è capace di dare un qualche valore di esistenza anche a ciò che riconoscerebbe come non definibile.
Ai non-credenti appartengono gli scettici, i razionali (compresi gli “Ultra-“ ed i “-sti”), i falsificazionisti e gli agnostici in senso stretto (ovvio). L’ultrazionale è un agnostico, ovvero un essere razionale consapevole del limite proprio e della propria specie, che con onestà riconosce l’insensatezza e l’inutilità di tutte quelle domande non analizzabili. Egli si distingue dai credenti forti perché non ha bisogno di cercare a tutti i costi una risposta alle domande, in base alla ovvia considerazione che esistono più domande esprimibili che risposte possibili.
Una nota: Perché pongo l’ateismo tra le versioni forti della credenza? L’ateo, per essere veramente tale, può esserlo solo per un atto di fede (la fede nell’assenza di un Dio, la quale, essendo “un’affermazione negativa”, non può essere analizzata e smontata direttamente) e quindi è ancora un credente forte: ha sostituito a Dio una nuova divinità, l’Assenza di Dio. E come tutte le credenze, anche l’ateismo ha la naturale tendenza al fondamentalismo, secondo la solita progressione: Io ho la Verità - Io sono la Verità - chi non è come me è la Falsità - la Falsità va Negata, Soppressa, Cancellata, Distrutta, Uccisa - Holy War: Amen.
L’agnosticismo è preferibile all’ateismo perché nel secondo cova mimetizzato il subdolo germe di ogni credo forte. Pertanto, l’ultrazionale è un Agnostico Asintotico All’Ateismo (A4), ovvero tende all’ateismo senza poterlo mai abbracciare come “assoluta certezza”.
Formalizzando: dato un tempo t ed un insieme di credenze assunte come verità non analizzabili At, nell’Ultrazionale si ha:
Lim At = 0
t→∞
Questo atteggiamento non è relativismo (un’altra credenza debole, esageratamente demonizzata di recente) bensì semplice onestà intellettuale: se, come pare evidente almeno agli atei, Dio non esiste, la sua non-esistenza non può comunque essere ricavata come Verità. E quindi, sulle questioni di Dio è meglio astenersi, sopratutto perché sono spesso assurdità mitologiche rimasticate da secoli o illogicità camuffate da poesia. (In questa ottica, il conflitto Fede-Ragione -per chi crede- svanisce: continuare a discutere sulla loro reciproca relazione è un controsenso. Le due impostazioni sono incompatibili, punto e basta. Credere in affermazioni palesemente in contrasto con la ragione o contro l’evidenza può significare due sole cose: ipocrisia per interesse -nel migliore dei casi- o dissociazione mentale schizofrenica -nel peggiore-).
La scienza e la logica moderne sono le forme di pensiero che più rispondono all’impostazione ultrazionale. Da un lato pratico, esse hanno fondato e prodotto il nostro mondo conoscitivo e tecnologico, dimostrando la loro capacità di essere attive nella realtà (al contrario di altri prodotti del pensiero che, proprio perché incapaci di rispondere attivamente nella realtà, si sono trincerati per millenni nell’autoreferenza della “Cultura”, fantomatica sapienza contrapposta al mondo oggettivo, alla “Natura”). Le enormi conquiste raggiunte nella tecnica, nella comunicazione, nella medicina e nella conoscenza sono la prova incontrovertibile della “verità fattuale e pratica” di scienza e logica. Da un lato “etico”, la scienza e la logica sono le uniche forme di pensiero non (tendenzialmente) violento, ovvero non-fondamentalista. Infatti, esse assumono i loro stessi limiti interni come parte integrante della loro struttura (con i teoremi di incompletezza ed il principio di indeterminazione), quindi assumo programmaticamente che non può esistere una “Verità Unica ed Assoluta”, ma solo verità provvisorie e parziali (spesso molto più importanti e profonde delle fantomatiche verità metafisiche). Inoltre, esse si distinguono da tutte le religioni, filosofie ed ideologie per il fatto di non partire da una “Verità” che spiega il Mondo, bensì partono dalla consapevolezza di avere un’ignoranza da colmare con la ricerca e la sperimentazione.
Ma sopratutto, proprio perché non si fondano sull’autorità di Autori o Testi più o meno Ispirati dall’Alto, ma si sorreggono solo sul principio di oggettività (che non solo permette a chiunque non sia convinto della validità di un'ipotesi/teoria di cercare di ripeterla e/o falsificarla, ma anche impone al ricercatore di fornire tutti i mezzi possibili allo scettico per la contro-verifica) scienza e logica rappresentano la forme di pensiero più democratiche e pluraliste esistenti.

Valorizzare la Fecondazione ErotoLogica (avete letto bene)

Il dolore di una caduta dipende dall’altezza dalla quale si è voluti cadere, quindi non ha senso lamentarsi perché una scala ha troppi pioli.
Il neofita dell’ultrazionalità, l’individuo razionale che scopre l’impostazione Ulteriore ma non è ancora pienamente in grado di staccarsi dalla vecchia reificazione (spero ricorderete il Reificatore Estremo, nato e cresciuto a pane e Parole-che-sono-Fatti), insomma, la persona di buona volontà non ancora abituata ad essere pienamente libera dalle favole che gli hanno inculcato (non solo la Patria, Dio, il Comunismo, la Democrazia, ma anche la Vita, l’Essere, l’Io), spesso attraversa una fase di limbo, di indecisione, quasi di rimpianto sublimato verso ciò che ora ha disvelato e dissacrato. La sua reazione classica alla Gioiosa Transvalutazione è il flirt occasionale e nuovamente consolatorio con la sorella maggiore dell’Ultrazionalità, quella zitellona antipatica e poco sexy nota col nome di Razionalismo. Non cadete nel Razionalismo, cari amici di birra!
Questo post (che non era previsto, dato che stavo preparandone uno sull’agnosticismo asintotico) vuole mostrare agli eventuali ultrazionali di transizione come NON si debba cadere nella logica razionalista dopo che certe vecchie (e care) mitologie sono state smontate nelle loro componenti.
Il fatto che le esperienze vissute evidenzino la natura prettamente meccanica, biologico-deterministica (quindi naturale) di aspetti dell’essere umano che tradizionalmente vengono ritenuti “spirituali” non implica che le CONSEGUENZE di quegli aspetti siano ugualmente meccanici e “inumani”. Scendendo dal generale al particolare, l’aver riconosciuto la matrice algoritmica profonda (biochimica, etologica, quel che si vuole...) delle pulsioni umane non impedisce (ma anzi, come spiegherò alla fine, esalta) l’esistenza di un VALORE nei fantomatici “sentimenti”.
Come tutte le strutture complesse, i sentimenti sono proprietà emergenti (della struttura del cervello). Di fatto, ogni persona, nella sua irriducibilità alla semplice somma delle componenti neuronali che la definiscono in toto (alla faccia dell’ingenuo spiritualismo e animismo), è una proprietà emergente. Ciò non ha niente di miracoloso (l’acqua è fatta di ossigeno e idrogeno, eppure le sue proprietà non possono essere fatte derivare dalle caratteristiche di quei due elementi), ed è una caratteristica costante della gerarchia esistente nelle strutture dell’universo, ed il motivo del perché il mondo, pur essendo fatto di atomi e fotoni, non è spiegabile esclusivamente dalla fisica ma richiede l’invenzione di altre discipline come la chimica, la biologia, la psicologia, la sociologia e la più bella di tutte, la Storia Naturale (vabbé... l’ultima l’ho messa anche se non era strettamente pertinente al discorso). Quindi, il riconoscimento che la sessualità non è
“altro se non un espediente, l’unico possibile, affinché la natura umana, posta
in bilico tra due livelli distinti, indecisa tra l’antica bestialità incosciente
e la fragile parvenza di libero arbitrio, continuasse a perpetuarsi,
sopravvivesse a sé stessa” (Irk Ekem),
non impedisce che l’esperienza sessuale sia degna di essere vissuta. Allo stesso modo, i legami affettivi sono portatori di valore anche se sono generati da narcotici auto-inibitori dell’egoismo naturale. Proprio il fatto che noi sappiamo riconoscere la vera natura delle relazioni affettive e, nonostante ciò, le sviluppiamo, con ironia, senza divinizzarle ma nemmeno demonizzandole e demolendole (spesso con risentimento), rimarca che la scelta ultrazionale sia la sola (o una delle poche) soluzione(i) all’apparente vuoto che lo “svelamento delle favole” parrebbe aver prodotto (alla faccia di tutti quelli che si scagliano anacronisticamente contro il “vuoto” di valori prodotto dal fantomatico “relativismo” della post-modernità). Altrimenti, si cade nella contraddizione pratica: se si dichiara di negare valore all’esperienza amorosa, definendola solo “meccanismo chimico”, allora bisogna negare valore a qualunque altro sentimento, compresa la solidarietà e l’amicizia (cari amici di bevute, anch’esse, ad essere corretti, sono solo macchinazioni ormonali evolute egoisticamente).
Tutti i sentimenti sono strutture emergenti: hanno una base chimica, una base anatomico-evolutiva, ed una base storico-culturale, ma alla fine sono percepiti soggettivamente come eventi concreti che fondano le esperienze individuali: se si demonizza a posteriori l’esperienza di coppia perché ha generato troppi 2-di-picche (dati e/o ricevuti) e/o ha prodotto troppi grattacapi depressivi a chi “ci è cascato”, si sta sbagliando obiettivo della critica. Non è il sentimento “in sé” o l’esperienza che se ne fa a richiedere una critica, ma piuttosto il sovraccarico di aspettative ed il persistere di “adolescenzialità” (spesso inconscia anche in chi dice di essere cresciuto) con i quali si vivono quei rapporti (e non mi rivolgo ai sentimentali che queste cose non le afferrano essendo totalmente imbevuti di ormone, ma ai neo-razionalisti che si sentono “traditi” della reale natura del sentimento).
In ultrationale stat virtus: ovvero, né il sentimentalismo ormonale ed ingenuo di zerbini, piattole e sdolcinati, né la finta razionalità chimico-etologica di chi ha solo paura di soffrire ancora; perché tra l’Amore con la maiuscola ed il Vuoto, c’è l’amore con la minuscola, il dominio su un bel gioco.
Chi ha orecchie per intendere intenda.

mercoledì 18 aprile 2007

Perché non possiamo non leggere “Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)” (e meno che mai non apprezzarlo)

Il titolo nidificato, la cui comprensione sta tutta nelle virgolette marcatrici della menzione, è un omaggio ad un libro stupendo, un’opera già entrata nell’inossidabile Biblioteca Ultrazionale. Ma sopratutto l’omaggio va all’autore, al matematico Piergiorgio Odifreddi.
Già lo conoscevo per un suo precedente libro, “Le menzogne di Ulisse”, per le sue lezioni di Logica matematica trasmesse dal Network Nettuno, e per la sua rubrica ne “Le Scienze”, e già da allora lo stimavo (la stima è il massimo sentimento ultrazionale) per la sua capacità di essere con eguale potenza competente, razionale ed ironico. Con quest’ultima opera ha saturato la mia possibilità di stima. Se fossi Presidente della Repubblica lo nominerei Senatore a Vita (e se fossi il Parlamento lo farei Presidente della Repubblica): ci vorrebbero politici come lui.
“Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)” è un libro che cercavo dal momento stesso in cui venni a sapere della sua esistenza, e che ora ho tra le mani grazie ad un membro planetario (nel senso di errante) dell’Universo Pueblico Ultrazionale, il Forestale Teatino dall’Orcoclastica Fotografia, che qui ringrazio sommamente.
Posso solo dire una cosa: DOVETE LEGGERLO!
Io l’ho divorato, incapace di staccarmi dalle 250 pagine, con tre morsi, fino alla fine... ma considerando che le opere che stimo sono state “ripassate” almeno tre volte non consecutive, le prossime due saranno più rilassate.
Il libro è un’opera pienamente Ultrazionale (non riesco a trovare altro termine), capace di analizzare con rigore (è zeppo di citazioni dei testi incriminati), sviscerare con precisione, dissacrare con arguzia, e smontare con assoluta lucidità e competenza la più epidemica delle superstizioni medioevali (comunemente nota come Cristianesimo), dimostrando tutta l’assurdità, l’incongruenza e l’anacronismo di quella mitologia mediorientale.
La lettura di questo libro è un antidoto contro la torbida catechesi che cercano di indottrinarci da piccoli (quando siamo più deboli e condizionabili), e che spesso permane come fumosa titubanza della ragione, come imprinting malato votato alla santificazione dell’ignoranza, della superstizione e della stupidità (Odifreddi cita a proposito questo brano dell’autobiografia di Darwin, che fu censurato dalla cristianissima moglie:
“Non dobbiamo trascurare la probabilità che il costante inculcare la credenza in
Dio nelle menti dei bambini possa produrre un effetto così forte e duraturo sui
loro cervelli non ancora completamente sviluppati da diventare per loro tanto
difficile sbarazzarsene quanto per una scimmia disfarsi della sua istintiva
paura o ripugnanza del serpente”.
Quanti di noi possono essere certi di non essere stati plagiati allo stesso modo dalla “dottrina”?).
Le “radici” cristiane dell’occidente sono ammuffite, sostanzialmente vuote e meritano di essere superate. Le mie radici sono la logica greca, la lingua latina (entrambe “pagane”), l’Umanesimo e l’Illuminismo, Pitagora, Euclide, Leonardo, Newton, Voltaire, Darwin, Nietzsche, Einstein e Gödel. Non è più sopportabile la cantilena stantia di chi scimmiotta (spesso ipocritamente) le millenarie cretinerie (il perché di questo termine è spiegato nel libro) della cricca chiesaiola che ancora oggi parassita l’umanità: quel poco che può essere salvato (ad esempio il concetto di carità per il prossimo nell’accezione universale) non giustifica la persistenza di tutto il resto, né sostiene quel carattere di “Verità Unica e Salvifica” che il cristianesimo si auto-attribuisce da duemila anni.
Per chi non sa reggere un mondo “senza Dio”, per chi crede che solo “dall’alto” possa derivare un senso dell’esistenza, noi amanti della conoscenza rispondiamo con l’ironia, con la logica, con l’evidenza, e col coraggio di chi sa di dover trarre il Senso da sé e non dalla contraddittorietà, falsità, sciocchezza e perversione (sessuofobica e misogina) di opere incartapecorite da secoli.
Leggendo il libro di Odifreddi sentirete subito un’aria più fresca, più forte e pulita (“Uno dev’essere avvezzo a vivere sui monti” diceva Nietzsche).
Buona lettura!

lunedì 16 aprile 2007

Per piacere, dammi bene

L’edonismo è un atteggiamento che considera fondamentale la ricerca del piacere. L’ultrazionale considera fondamentale la ricerca sull’edonismo, perché riconosce nel piacere un elemento paradossale. Tradotto, qual è il significato storico (naturale) del piacere? Da quale meccanismo psico-neurale trae origine? La domanda sembrerebbe ovvia, ma non è così.
La risposta immediata che verrebbe da dare in un contesto funzionalista è parziale e miope. Rispondere che il piacere esiste perché esso rinforza uno stimolo positivo è banale e ridondante (stesso meccanismo usato in alcuni dizionari che rimpallano il significato di "piacevole" a "ciò che è gradevole" e di "gradevole" a "ciò che è piacevole"). La domanda vera, che molti nemmeno riconoscono è: per quale motivo io devo auto-produrre una sensazione (piacevole) distinta dallo stimolo positivo? Perché non potremmo essere semplici fruitori di stimoli, capaci di allontanarci da/evitare quelli che producono danni e rivolgerci a quelli che producono benefici senza per questo associare a questi stimoli un dolore o un piacere? Perché oltre alle sensazioni (riconoscimento della fonte dello stimolo) proviamo anche il piacere ed il dolore, spesso in misura spropositata rispetto allo stimolo? Per chi ancora non avesse afferrato il mio sconcerto, faccio questi esempi:
Esistono numerosi stimoli che non producono una consapevolezza, ma che nondimeno vengono recepiti dal cervello e producono una qualche reazione, ad esempio le varie attività endocrine e viscerali che costituiscono la componente vegetativa del nostro corpo: stimoli che continuamente arrivano e partono dal cervello senza che ne percepiamo l’esistenza. Esistono anche stimoli consapevoli che producono reazioni consapevoli ma che non sono associati a sensazioni di piacere o dolore, ad esempio i riflessi, le variazioni di postura, la momentanea perdita della vista nell’atto di sbattere le palpebre, la maggioranza dei suoni e delle immagini che captiamo durante la vita: tutti stimoli privi di piacere o dolore. Esistono infine stimoli che vengono percepiti e che producono una sensazione carica di valore, quelli che appunto chiamiamo piacere e dolore. Da dove deriva questo valore aggiunto? Non dagli stimoli stessi, dato che lo stesso stimolo può produrre diverse sensazioni con o senza piacere/dolore in persone diverse o nella stessa persona in momenti diversi (accade spesso, quando mi trovo con la mia Paleoshurina 1, che la medesima temperatura dell’ambiente sia recepita da me come piacevole e da lei come fastidiosa). Quindi il valore deve derivare dall’interno, dal cervello stesso che "sente" piacere o dolore. È qui il paradosso (almeno per l’ultrazionale): il cervello produce il piacere che lui stesso deve provare. Che senso ha? Se il piacere è così desiderabile dal cervello, perché non lo produce continuamente, e sopratutto, perché non è in grado di gestirlo indipendentemente dalla sorgente esterna dello stimolo (ad esempio, perché il piacere del gusto può essere provocato solo dalle sostanze di certi cibi disciolte sulla lingua? Se il piacere non è nelle sostanze né nella lingua, ma nel cervello, perché non siamo in grado di attivarlo "a piacere", quando ci va?)? Quale contorto meccanismo masochista sta alla base dell’eccesso di dolore che persiste anche dopo che la fonte dello stimolo ha cessato di agire?
Se il problema della funzionalità del dolore è facilmente comprensibile in un mondo entropico nemico dell’ipercomplessità organica, quello del piacere è più arduo da decifrare (ammesso che lo possa essere).
Cominciamo con l’eliminare le situazioni evolutivamente perdenti: un beato animale capace di mantenere volontariamente un orgasmo perpetuo sarebbe la più facile delle prede, oppure potrebbe restarsene felicemente inebetito fino a morire di fame: ergo, il piacere può esistere/evolvere solo come compromesso con altre attività vitali. Tolti i casi palesemente non-evolvibili, resta il perché il piacere si sia evoluto nella forma blanda e vincolata agli stimoli esterni, come nei nostri corpi. Per chi ancora non avesse afferrato il senso della domanda, la riformulo così: siccome potrebbero esistere benissimo (e forse esistono) animali capaci di reagire agli stimoli senza associare a questi dolore e piacere (degli automi funzionanti ed emotivamente distaccati come - probabilmente - sono gli insetti*... non a caso gli animali di maggiore successo sulla Terra), perché esistiamo anche noi, che associamo a stimoli esterni degli optional, delle sovrastrutture emotive prodotte dallo stesso cervello? Dato che sia l’automa distaccato che il creatore di piacere interagiscono con l’ambiente esterno in modi simili (l’ambiente è sordo nei confronti delle eventuali valutazioni di chi lo abita), non è nel vantaggio adattativo classico che dobbiamo ricercare la causa del piacere. Il piacere è probabilmente neutrale con l’esterno, a differenza della reazione, la quale deve evolversi come risposta coerente e vantaggiosa allo stimolo. Se questo ragionamento è corretto, il piacere si è evoluto in funzione di qualche processo evolutivo interno al cervello.
Una possibile spiegazione è la seguente.
Il cervello degli animali dotati di emotività consapevole al piacere (ed al dolore) è un "neurosistema", al cui interno, in analogia con i sistemi ecologici (ecosistemi), differenti popolazioni (neuronali nel primo, tassonomiche nel secondo) competono per le risorse, evolvono, co-evolvono, o si estinguono.
Il piacere (la sensazione di valore) è probabilmente un parassita neuronale, una struttura non necessaria evolutasi all’interno di qualche sotto-sistema del cervello e che è sopravvissuta sviluppando una simbiosi con strutture appartenenti a sotto-sistemi più antichi e necessari. Il piacere si è associato al sistema di ricezione di determinati stimoli, probabilmente producendo una nuova serie di stimoli "astratti" (i valori, il piacere ed il dolore) rivolti alle strutture associative più elaborate. Come l’antico stimolo "senza piacere" si limitava a indurre una reazione, così il nuovo sistema "stimolo + parassita" induce un doppio effetto: la reazione classica (rivolta all’esterno) + l’emozione (rivolta ad altre zone del cervello, in particolare ai centri consapevoli che "elaborano" simboli e sensazioni per produrre il pensiero). Dato che il pensiero potrebbe esistere anche in assenza di un mondo esterno fonte degli stimoli (come sostengono i solipsisti e come accade nei sogni), esso non è in grado di discriminare direttamente ciò che le giunge dal mondo esterno da ciò che le giunge da altre parti del cervello (appunto è ciò che fa andare avanti "the Matrix" dell’omonimo film). Quindi, il piacere può sopravvivere (nonostante la sua apparente ridondanza) ingannando la coscienza, dandole falsi stimoli (valori aggiunti) associati agli stimoli reali che giungono dall’esterno.
Una conseguenza di questo ragionamento è che il piacere deve appartenere a zone cerebrali distinte da quelle che hanno/sono autocoscienza: ciò spiegherebbe la nostra incapacità di frenare il piacere quando diventa dipendenza o il dolore quando supera le soglie di sopportabilità (anzi, il fatto stesso che a volte non siamo in grado di sopportare il dolore è la prova che esso è prodotto da parti del cervello distinte da quelle dell’auto-coscienza). Noi (le parti auto-coscienti del cervello che parlano e pensano di essere l’Io) conviviamo con un numero imprecisato di "altri", con esseri neuronali privi di consapevolezza e meccanici nel comportamento, in un affollato mondo cerebrale di parti connesse eppure distinte, in competizione reciproca dentro il cranio. Siamo probabilmente la buccia flessibile e consapevole di un corpus cerebrale automatico ed inconsapevole.
Forse sarebbe più saggio non dire semplicemente "io" quando si parla dell’essere che vediamo davanti allo specchio, né di usare un fasullo plurale maiestatico. L’espressione migliore sarebbe: "io con gli altri simbionti".
Se questo post non vi fa piacere, è un bene...
*PS: dato che è prevedibile che i sentimentalismi di certi "amici degli animali" interpreteranno negativamente (o distorceranno il senso de) la mia affermazione sugli insetti, è bene che la giustifichi.
Io sostengo che gli insetti sono degli automi privi di emozioni, meravigliose macchine biologiche (come noi) ma prive delle (libere dalle) nostre sensazioni di piacere e dolore.
Il mio ragionamento è il seguente:
Dato che esiste un unico essere vivente del quale posso avere la certezza che provi dolore e piacere (io stesso), l’esistenza di sensazioni di piacere e dolore (simili alle mie) in altri animali (uomini compresi) posso ricavarla solo indirettamente da ciò che osservo.
Negli esseri umani esiste il linguaggio. Le persone raccontano esperienze di piacere e dolore e trasmettono immagini di quelle emozioni in maniera tale da suscitare in me empatia. Inoltre, i loro corpi (in particolare i volti) si comportano alla stessa maniera del mio, e non sarebbe giustificato credere che quelle espressioni che associo ai miei sentimenti debbano corrispondere a emozioni solo in me. Ciò mi basta per riconoscere nei miei conspecifici l’esistenza di piacere e dolore.
Per gli esseri privi di un sistema nervoso escludo che esistano piacere e dolore. Assumerlo sarebbe un’inutile mitologia senza giustificazioni razionali.
Per gli esseri non-umani dotati di sistema nervoso, vedo che non tutti manifestano comportamenti che si possono ricondurre al dolore o al piacere. Siccome non tutte le sensazioni nervose sono fonte di emozione, l’esistenza di un sistema nervoso è condizione necessaria ma non sufficiente all’esistenza di sensazioni di piacere e dolore. In particolare, nelle forme di piccolissima taglia sorge persino il dubbio se l’animale abbia una qualche capacità di discriminare il suo corpo dall’ambiente sulla base di segnali nervosi. Dopo queste considerazioni, penso che un’emotività fondata su piacere e dolore simile a quella umana esista solo all’interno dei vertebrati (forse anche nei molluschi cefalopodi, ma non ho dati sufficienti per parlarne). Ho osservato chiare manifestazioni di dolore in vertebrati di tutti i gruppi principali, quindi non metto in dubbio che quegli animali provino una qualche forma di emotività.
Al contrario, quando ho osservato insetti in situazioni che nei vertebrati avrebbero provocato espressioni di forte dolore (come mutilazioni, spesso mortali), i primi parevano comportarsi più come "giocattoli danneggiati" piuttosto che come "animali feriti": si muovevano meccanicamente, spesso continuando nell’azione che stavano svolgendo prima di essere danneggiati, fino a spegnersi completamente.
Riconosco che l’evidenza è negativa, tuttavia, come nessuno attribuisce ad un robot industriale difettoso un’emozione, così non potrebbe darla ad uno scarabeo mutilato mortalmente. Il fatto che uno è chiamato "macchina" e l’altro "animale" non significa necessariamente che essi siano distinguibili a livello di emozioni. Se qualcuno si sente spinto dall’emotività (propria) a dare un’emotività ad un insetto, è libero di farlo, tuttavia, sarà accolto in questa discussione solo se avrà degli argomenti razionali capaci di sostenere la sua ipotesi. In tal caso, sarò felicissimo di ritrattare la mia attuale posizione e di riconoscere un’emotività agli insetti.

sabato 14 aprile 2007

Vendesi in Via d’Estinzione Lussuoso Attico Cinquecentesco, prezzi modici, citofonare ore pasti Homo sapiens


"L’arrivo delle genti di Awruaxia e Taswond nelle ignote terre occidentali aveva inaugurato la Tarda Civiltà dei Duplici. Contraendo i confini del mondo, stravolgendo, imbastardendo e cancellando la multiforme eredità di divergenze e isolamenti durata centomila anni, la fusione di Est ed Ovest aveva prodotto la Terribile Implosione, l’Era Senza Limiti".
Irk Ekem

L’applicazione libertaria delle definizioni è un gioco molto diffuso tra gli ultrazionali.
La vulgata conservazionista tende a presentare le vittime dell’espansione demografica e ambientale umana secondo un cliché ormai abusato. Le specie in via d’estinzione sono di solito ritratte come popolazioni in contrazione geografica e in inesorabile declino numerico, confinate in aree ristrette, frammentarie e spesso sotto stretto controllo degli amici della Natura. Eppure, esiste una specie che è da molto tempo in via d’estinzione, che non viene quasi mai citata e che non rispecchia questo stereotipo. Forse è snobbata proprio perché non corrisponde alla nostra aspettativa di specie in estinzione, o forse perché non è particolarmente simpatica alla maggioranza degli ambientalisti. Quella specie siamo noi! Homo sapiens è in via d’estinzione da cinque secoli. Esattamente, si è trasferita sul lussuoso attico in Extintion Way nell’ottobre 1492 dell’Era Volgare. Chi ha presente cosa accadde all’inizio dell’ottobre di quell’anno, evento che Roberto Benigni e Massimo Troisi tentarono vanamente di impedire (con enorme esito comico), avrà già compreso la logica della (nemmeno tanto provocatoria) provocazione. Ma, a differenza di quanto potrebbe far pensare il riferimento cinefilo, qui non sto affermando che l’avvio dell’estinzione umana sarà prodotto delle attività mondiali globalizzanti ed inquinanti aventi la società (nord) americana come attuale (e provvisorio) apice. Se il mio ragionamento fosse quello solito, non avrebbe senso l’affermazione che l’estinzione umana sia iniziata nel 1492. In fondo, i casini ambientali sono iniziati alla fine del XIX secolo, e non certo nel XV, quindi, in quel caso, sarebbe stato più appropriato dare la paternità dell’estinzione alla rivoluzione industriale e ad Henry Ford, piuttosto che ai castigliani e a Colombo.
Il mio discorso è più ultrazionale, e segue un’ottica ad una scala più vasta delle contingenze citate dai soliti catastrofisti. Sia chiaro, l’età industriale ha prodotto i due principali fattori dell’imminente (entro secoli) crisi mondiale (sovrappopolazione e inquinamento), ma non sono questi gli oggetti del post, né i fattori che provocheranno il tipo di estinzione di cui voglio parlare. Io sostengo che l’umanità ha iniziato la via all’estinzione con la scoperta dell’America proprio per le implicazioni dirette di quel evento.
Per farmi comprendere, procederò per gradi.
Com’era il mondo prima del 1492? Fondamentalmente (e semplificando molto) esso era suddivisibile in tre grandi aree, reciprocamente isolate da almeno 10 mila anni (salvo occasionali ed effimeri eventi di contatto): il Vecchio Mondo (Afro-Eurasia), il Nuovo Mondo (Americhe) ed il Nuovissimo Mondo (Oceania). Tradotto in termini microevolutivi, l’umanità aveva la potenzialità (se avesse mantenuto quella condizione per un tempo geologico sufficiente) per scindersi in tre specie distinte, in grado di dare un poco di respiro alla misera disparità del genere Homo, che da almeno 20 mila anni si era ridotto alla sola (ed ingombrante) specie H. sapiens. Il fatto che oggi tutte le popolazioni umane di ogni continente siano interfeconde mostra che l’isolamento genetico di Vecchio, Nuovo e Nuovissimo Mondo era appena accennato a livello esteriore (fenotipico) ma non ancora radicato nel genoma.
Con la scoperta dell’America è partito un processo inarrestabile (ed ancora in atto) di rimescolamento tra le diverse popolazioni, che dal punto di visto socio-culturale ha portato all’attuale crisi/estinzione delle culture minoritarie, mentre alla lunga scala produrrà l’arresto completo di qualunque spinta evolutiva naturale (v. Leggi di Hardy-Weimberg, per i genetisti). Ciò è noto da tempo, ed è stato sottolineato sotto più punti di vista (spesso per fare assurde considerazioni razziste e xenofobiche). Ma aldilà dell’arresto del processo evolutivo (fenomeno di per sé insignificante, dato che la nostra tecnologia ci svincola potentemente dalle pressioni evolutive darwiniane ponendoci in un più ottimistico mondo lamarkiano), la trasformazione dell’unica specie ominide rimasta in un’unica singola popolazione distribuita su tutta la Terra rende Homo sapiens molto simile alle specie in via d’estinzione. L’umanità ha saturato il suo areale possibile di distribuizione (la colonizzazione di altri mondi è così remota che per me non accadrà mai, alla faccia di Star Trek) e di fatto vive in un unico ambiente, grande come il pianeta. Se il trend degli ultimi 5 secoli continuerà, arriveremo alla condizione di una sola popolazione umana panmittica, diffusa in un solo ambiente di scala mondiale, dal quale difficilmente potrà migrare altrove, esattamente come le specie in via d’estinzione sono ridotte a singole popolazioni confinate in un unico ambiente dal quale non possono migrare altrove. Il fatto che la popolazione unica di H. sapiens abbia una distribuzione molto più vasta di quella di qualunque altra popolazione del passato non la protegge dal rischio di estinzione, proprio perché essa dispone di mezzi di distruzione (diretti o indiretti) capaci di raggiungere chiunque ed ovunque. Prima del 1492, un’epidemia incurabile avrebbe potuto eliminare tutta l’umanità del Vecchio Mondo risparmiando Americhe e Oceania. Oggi, un’epidemia simile, o una guerra totale, raggiungerebbe in breve l’intero pianeta, e se accadesse, non credo che gioverebbe molto il fatto che disponiamo di più raffinati mezzi di prevenzione (delle epidemie, non delle guerre).
L’umanità ormai è evolutivamente stabile (se non addirittura stagnante) e spazialmente vincolata (se non ingabbiata): ha raggiunto la saturazione, il limite massimo della sua potenzialità espansiva, non ha più sbocchi genetici, né può puntare sulla frammentazione delle popolazioni, sull’isolamento genetico, per produrre novità evolutive. Tutte queste caratteristiche, se fossero riscontrate in un’altra specie, la renderebbero candidata all’estinzione.
Infine, massimo paradosso, l’umanità non può nemmeno sperare che scompaia la principale causa di estinzione osservata nelle specie attualmente in crisi, dato che quella causa è proprio lei.
L’unica soluzione alla persistenza di una singola popolazione universale ed alla stagnazione evolutiva sarebbe il ritorno alla frammentazione, all’isolamento prolungato delle diverse popolazioni, ma ormai ciò sarebbe possibile solo a seguito di eventi molto drammatici, in uno scenario da Medioevo Globale, più terrificante del male che curerebbe.
Ma come disse il Presidente in "Indipendence Day" (con la voce di Homer Simpson): "Noi sopravviveremo!".

venerdì 13 aprile 2007

Evoluto un corno

Gli alberi in primavera sono un rigoglio di vita (attenti alle parole). Se vi trovaste di fronte due alberi maestosi, sani e vigorosi, carichi all’inverosimile di foglie e rami, come due querce nel pieno della primavera, ed una persona si avvicinasse a voi dicendovi che i due alberi sono chiaramente diversi, distinguibili e comparabili sulla base della loro “Fogliutezza”, e che quello più vicino a voi è il più “fogliuto”, come reagireste?
Prima di chiamare un’ambulanza, svisceriamo un poco il nostro amico. Innanzitutto, egli ha un nome, è il Reificatore Estremo, “il creatore di realtà dalle parole”. Egli si illude che qualsiasi termine esprimibile a parole corrisponda ad una “realtà” esistente, e spesso lotta con stucchevole accanimento per salvaguardare la sopravvivenza delle sue mitologie. Dato che è in grado di dire: “giustizia”, “amore”, “pace”, “civiltà”, “democrazia”, “razza” e tante altre fonazioni articolabili e comprensibili, allora crede che esistano La Giustizia, L’Amore, La Pace, La Civiltà, La Democrazia, La Razza. Se poi l’Ultrazionale gli chiede come sia ciò che dice, dove sia e come sia riconoscibile, il Reificatore Estremo risponderà con una serie di mitologie infarcite di altre parole reificate. Una di queste parole è “Vita”. La Vita, come soffio vitale, come entità che distingue il non-vivente dal vivente, è la più diffusa delle reificazioni. L’Ultrazionale riconosce che esistono sulla Terra degli esseri viventi, strutture complesse funzionanti biologicamente, ma non riconosce in ciò l’esistenza di un qualcosa chiamato “Vita”. Anche ammesso che ognuno di noi riconosca di essere “vivo”, ciò non ha niente a che vedere con l’esistenza della Vita. La Vita non è una proprietà-qualificante i viventi, è solamente una favola semplicistica che è stata elevata a dogma. Ed anche quando il Reificatore riconosce l’inconsistenza della Vita, persiste nel suo modo di pensare affermando che i viventi, se non sono manifestazioni della Vita, sono comunque il risultato dell’Evoluzione.
Evoluzione è il nome che diamo ad un processo storico (un mix di algoritmi e caos), niente più. Eppure, all’evoluzione viene data una tale carica di “realtà autonoma”, che è difficile non cadere nella trappola reificatrice. Dopotutto, noi siamo gli esseri che mostrano il Comportamento più evoluto che esista, quindi l’Evoluzione pervade la nostra Esistenza, diffonde da ogni aspetto della nostra Vita. Come negare tutto ciò?
L’Evoluzione, dall’ameba all’uomo.
Non illudiamoci con il nostro ingenuo sciovinismo. Innanzitutto, è proprio vero che siamo gli animali più evoluti esistenti sulla Terra? Si può stimare l’evoluzione, ammesso che ciò abbia senso? Se esistesse un criterio per quantificare l’evoluzione, questo sarebbe la sommatoria completa delle modifiche evolute intercorse nel tempo, e non l’arbitraria focalizzazione su alcune caratteristiche particolari. Il nostro cervello è sicuramente il più complesso esistente, ma per il resto del corpo siamo modificati allo stesso livello (o spesso molto meno) di qualsiasi altro mammifero placentale. Prendiamo un qualsiasi mammifero moderno e confrontiamolo con noi. Dato che fino al più recente antenato comune che condividiamo con quella specie abbiamo la stessa storia evolutiva, è inutile considerare i caratteri prodottisi prima della divergenza tra le due specie. Quindi, prendiamo in considerazione i due cammini evolutivi dal momento di divergenza, e stimiamo “l’evoluzione” considerando quanto entrambi si siano allontanati dalla morfologia del loro ultimo antenato comune. Appare chiaro che se ci confrontiamo con la maggioranza dei mammiferi attuali considerati più “evoluti” (qui inteso nel senso darwiniano di discesi con modificazioni da un antenato, e non nel senso comune di “migliorati”, “progrediti”), non siamo né più né meno evoluti di loro. Un cetaceo, un pipitrello, una giraffa, un lamantino, un elefante, un armadillo ed un uomo sono allo stesso livello di modificazione rispetto al loro più recente antenato comune (un simpatico placentale basale del Cretacico Inferiore). Quindi, i mammiferi attuali, con l’uomo incluso, sono approssimativamente evoluti allo stesso livello. Nondimeno, si può dire che l’uomo, in quanto mammifero, è più evoluto di qualsiasi altro animale non mammifero esistente. Oppure no? Ad esempio, prendiamo un uccello come un piccione, un animale al quale si riconosce un “alto livello evolutivo”, ma che tuttavia è generalmente ritenuto meno evoluto di un essere umano (o di un qualsiasi mammifero). Un uomo è più o meno evoluto di un piccione? Usando il criterio citato prima, l’assurdità della domanda può essere tradotta nella più concreta:”chi dei due è più modificato rispetto alla morfologia esistente nel più recente antenato comune di entrambi?”. Anche in questo caso, affermare che l’uomo sia più modificato di un corvo rispetto alla loro condizione primitiva comune è sciovinismo e miopia. Certo, noi siamo animali vivipari, allattiamo, abbiamo peli, tre ossa nell’orecchio medio, ma un uccello ha ali, sacchi aerei, polmoni con un’efficienza di gran lunga superiore ai nostri, membrana nittitante, penne e piume, tutti caratteri “evoluti”. Un piccione conserva caratteri primitivi come l’articolazione quadrato-articolare della mandibola, e la deposizione di uova con guscio, ma noi conserviamo molti altri caratteri primitivi che un piccione ha perso o modificato: abbiamo ancora i denti, cinque dita nelle mani e nei piedi, siamo plantigradi, abbiamo ossa compatte. Curiosamente, uomo e piccione hanno acquisito indipendentemente uno dall’altro il bipedismo, il “sangue caldo”, un cuore a quattro cavità, una coda cortissima, le clavicole fuse assieme, sebbene secondo modalità e storie evolutive differenti. E la lista completa di tutte le modificazioni è stata solo accennata (per entrambi).
Ha ancora senso parlare di livelli evolutivi? Tornando all’inizio, riuscireste a determinare tra due alberi della stessa specie ed età quale dei due ha più foglie nel pieno della primavera? Dareste senso alle parole di qualcuno che dicesse che, ad esempio, l'albero di sinistra è più “fogliuto” dell’altro? Ovviamente, no. Eppure, la comparazione uomo-piccione segue la stessa il-logica.

martedì 10 aprile 2007

Megamatricomia

Il Mito, come idealizzazione di eventi storici trasfigurati in chiave eroica, ha in sé il germe dell’azione, dello stimolo all’espansione, del superamento dei Limiti (Nexseria, qui pongo la Tua prima pietra, unica nei prossimi nove secoli. Chi avrà pazienza, un dì capirà). Il Mito è motore, esempio e modello; é la massima elaborazione della coscienza pre-teoretica. Per l’Ultrazionale, per il Dissacratore Meta-teoretico, cosciente che la propria base mitica è una meravigliosa simplesiomorfia (v. dizionario biologico alla voce Cladistica) meritevole di essere esattata (v. exaptation) al pari di nobili morfologie (come l’antichissimo numero delle dita della mano, il 5 dal Devoniano retaggio), il mito è un ludus, un gioco, fine a sé stesso.

In Principio era una tesi di Laurea.
Nel Caos della Prima Era Universitale, l’allora Demiurgo non ancora Ultrazionale plasmò dagli Strati di Paleonto-Logos la Prima Matrice.
Quarantacinque le Unità Tassonomiche che Egli riunì, assoggettandole al Suo Volere per mezzo delle 386 Definizioni dei Caratteri, vincolandole ai doveri dei Gruppi Esterni Parafiletici. Ed Egli vide che i 45 si distribuivano sull’Albero di Strisciante-Coda-Scavata secondo le loro apomorfie, con parsimonia e consistenza. Perché era cosa buona e giusta.
Il Giorno settimodecimo del settimo mese dell’anno 241.578.396 di Panaves, il Demiurgo giunse al cospetto del Consiglio dell’Aureo Corso, presieduto dall’Occulto Signore della Natura e dallo Zio della Terra, per essere giudicato. E con lui, fino alla Fine, gli Eroi della Prima Era, i Valenti e Dementi Compagni e le Mitiche Shurine: il Sarmatese Duplofago, Predatore Massimo di Gondwana, futuro padre di Razanandrongobe; il Villanoviano, Principino della Fossetta, Protettore-Pappone di tutti i Bagnini; il Pilastro dei Tre Laghi, dalla Chioma Eterna, Censitore Fitofago degli Esapodi Innumerevoli; la Dama dei Quattro Castelli, Signora dei Lupi; la Consorte del Cardano, Detentrice dello Sgombro Cristallino; la Ricciola Maga Amica dal Gluteo Sublime, Nemica del Villanoviano; la Bionda Principessa sul Torrazzo, dalle Lunghe Gambe e molti Cuccioli; il Coltivatore Inossidabile, Amputatore di Arti; l’Invincibile Bevitrice del Borgo, che non teme i contromano; l’Occhio (miope) della Contea, Compagna del Solare Pescatore; la Ginnica, Madre di Omonimi; la Decisionista Prima, Sposa di Massi l’Ascendente; e l’Azzurra Signora delle Cinque Terre.
In quel giorno memorabile di trionfo, lode e menzione, estasi e furore, nel quale assunse il Titolo dei Suoi Pari, nel quale comprese i significati di Visceralità e Ultrazionalità, e separò l’Errore Cenozoico dal Valore Mesozoico, il Demiurgo decise che non si sarebbe fermato fino alla conclusione dell’opera che aveva iniziato. La Prima Matrice, per quanto degna di lode e menzione, era parziale ed incompleta, assumeva troppe relazioni come a priori non testati, era necessariamente vincolata alle contingenze del momento in cui fu prodotta.
La consapevolezza che tutti gli assunti aprioristici presenti nella Prima Matrice dovevano essere eliminati unì il Demiurgo Ultrazionale ed il Sarmatese Duplofago in un Progetto, il primigenio atto di fondazione della Megamatrice, la più Grande e Completa Analisi ************ di ********* (che sarà presto) pubblicata.
Dopo più di tre anni e mezzo di lavoro, non posso che essere mega-orgoglioso di ciò che abbiamo creato. Ad oggi, la Megamatrice è quasi dieci volte più grande della Prima Matrice, ha allargato il suo gruppo interno inglobando tutti i gruppi esterni della Prima, ha scomposto tutti i taxa di ordine superiore nei generi corrispondenti, è in grado di determinare la posizione di qualunque nuova forma e di testare tutte le diverse ipotesi senza fare assunzioni aprioristiche sulle relazioni.
Ma ora basta con le mitologie, valori per (E)neocelti quanto giochetti per Ultrazionali.
Per chi volesse i dettagli sulla Megamatrice, sulla sua genesi, struttura e composizione, sul suo senso e, sopratutto, sugli oggetti meravigliosi dai quali trae sostanza, rimando a futuri post.
I Tempi non sono maturi.

sabato 7 aprile 2007

Adesso non ho Tempo

Da ieri sto leggendo un saggio dal titolo molto editoriale: The End of Time, del fisico J. Barbour. Il titolo non parla della fine del tempo/universo ma dell’abolizione del concetto di tempo dalla Fisica. La tesi molto parmenidea dell’autore è che il tempo sia un’illusione, un concetto superfluo per la fisica, e propone una teoria Atemporale del Mondo. Finora ho letto una cinquantina di pagine e sono sufficientemente scettico per andare avanti di gusto. Se mi convincerà della sua argomentazione, sarò felice di ritrattare il mio attuale scetticismo. Due aspetti, per ora, vale la pena di considerare.
Il primo è il modo con il quale l’autore elimina il tempo dall’universo. Egli definisce gli Adesso (Nows), gli oggetti del suo universo-senza-asse temporale. Un Adesso è una qualunque possibile configurazione di oggetti. Come un fotogramma di un film, un Adesso descrive le struttura dell’universo in un istante particolare. Senza entrare nel merito di cosa sia un istante (concetto di istante mi rimanda al concetto di simultaneità, il quale è stato abolito/ridimensionato dalla relatività di Einstein... vedrò più avanti nel libro se/come spiegherà la cosa), in pratica, ogni Adesso è la descrizione completa della posizione di ogni particella di ogni oggetto (che, come ricordo da quel poco di meccanica quantistica che so, è definita dalla funzione d’onda della particella), compresi gli atomi del mio cervello in quel particolare istante (se faccio parte di quell’Adesso). Il Mondo degli Adesso (chiamato col terrificante nome di Platonia... già che c’era poteva riesumare “Iperuranio”) è l’insieme di tutti gli Adesso possibili. C’è l’Adesso di adesso, l’Adesso di due secondi fa, l’Adesso di quando cadde il primo dente al mio trisnonno, l’Adesso del Big Bang ecc... Anzi, dice l’autore, è scorretto ed illusorio dire che ad ogni Adesso corrisponda un “evento passato”, perché il tempo non esiste, esistono solo gli Adesso (da ciò ne deduco che ci sono più Adesso che eventi storici, perché esistono anche gli Adesso di ciò che avrebbe potuto essere ma non fu). (Nota: limitazioni linguistiche e “consuetudini” verbali ci fanno usare il tempo durante i discorsi, tuttavia, nell’ottica degli Adesso, ciò è solo convenzionale. Esattamente come la frase: “il mammouth aveva la pelliccia per proteggersi dal freddo” è una veloce e scorretta metafora per dire “è plausibile che la presenza di pelliccia sia stata selezionata nelle popolazioni di mammouth sotto l’effetto del cambiamento climatico glaciale”).
Per spiegare l’illusione del tempo, l’autore fa le considerazioni più interessanti (almeno per ora). Il principale nemico della teoria Atemporale è la coscienza del passato. Se nell’universo non esistessero esseri coscienti non ci sarebbe alcun problema ad accettare la realtà di Platonia (ma se non esistesse coscienza, Platonia non sarebbe concepibile): tutti gli Adesso coesisterebbero felicemente in Platonia, OGNUNO SLAGATO DAGLI ALTRI, ognuno simile e differente dai vicini, tutti fuori dal tempo. La coscienza in un mondo di Adesso è un fastidioso paradosso: noi ricordiamo il passato e siamo consapevoli del movimento (spostamento nello spazio-tempo). Come risolverlo? L’autore afferma, molto intelligentemente, che tutti i ricordi del passato si basano sulle tracce presenti “nel presente”. Le rocce hanno tracce che rimandano ad eventi passati, le foto dell’anno scorso sono immagini che interpretiamo come eventi passati, questo post che state leggendo è un evento del passato (almeno per voi che lo leggete e non lo state scrivendo), così come i nostri ricordi non sono altro che tracce e disposizioni presenti adesso nel cervello e che interpretiamo come eventi passati. In pratica, il passato esiste perché abbiamo prove che ci fanno pensare che esista. Per quel che riguarda il movimento, l’autore dice, per ora sbrigativamente, che nessun oggetto alla fine di un movimento è lo stesso di quando iniziò il movimento, sopratutto alla “vera” scala delle particelle elementari, ed ogni posizione del movimento appartiene ad un diverso Adesso. Quindi: siccome nell’Adesso “in cui mi trovo adesso” è configurata anche la struttura cerebrale dei miei ricordi, allora esiste il passato che ricordo, come illusione del cervello così costruito. Sarà vero che i ricordi del passato sono tracce costruite nel presente, ma ciò non risolve un aspetto più importante: la mia coscienza non è istantanea. Il “presente” che noi viviamo non è un istante, è un intervallo di tempo con una qualche durata (anche un solo secondo di consapevolezza continua dà esistenza al tempo). La coscienza è un processo, il quale presuppone almeno due eventi (se vogliamo, due Adesso) distinti ma connessi. Per ricordare un evento, per avere coscienza di ciò, è necessario un processo che avviene in un (seppur breve) intervallo di tempo. E se io sto ricordando, quindi sto traendo l’informazione “passata” presente nel cervello, lo faccio in un tempo definito ma non nullo, devo necessariamente partire da un Adesso, nel quale l’informazione viene tratta, ad un Adesso nel quale l’informazione è stata acquisita e diventa consapevolezza: i due eventi, entrambi necessari alla coscienza per renderla tale, sono distinti, separati da un intervallo temporale. Come direbbe Cartesio: cogito ergo tempus est. A meno di non dare alla coscienza una qualche realtà extrafisica (come facevano molti dei filosofi e tutti i teologi che si occuparono di questo problema), o, peggio di abolirla, negandone la realtà, la necessità del tempo rimane tale e quale è nella fisica “standard” (quindi viene meno la necessità di rifarci a Platonia).
Temo che l’autore di questo interessante libro non sia forte in neuro-psicologia quanto lo è in fisica quantistica, ma forse mi sbaglio. Vedrò proseguendo con la lettura.
Adesso non ho Tempo per continuare col discorso, ma dato che il tempo non esiste, vi rimando all’Adesso nel quale ho già finito di scrivere il post di commento finale al libro.

Egocentria Genetica

La settimana pasquale è da casuale sfondo per un minuscolo intermezzo biblico.
Avvertenza: Questo post non è minimamente interessato alle inutili (e spesso ridicole) discussioni pro e contro il creazionismo scientifico che anche in Italia sembrano aver preso piede per scimmiottare la realtà nordamericana. Per essere chiari da subito, il Demiurgo Ultrazionale dà al Vecchio Testamento la stessa validità scientifica dell’Iliade o del Libro dei Morti egizio.
Sfogliando il dizionario di Inglese/Italiano, mi sono imbattuto in questo termine:
postdiluviale agg. (geol.): Holocene (attr.), Recent.
Postdiluviale è un termine della geologia settecentesca e ottocentesca, e rispecchia la concezione creazionista allora dominante che interpretava i sedimenti più recenti come deposti dalle acque in ritirata dopo il Diluvio (appunto, postdiluviali). Holocene (Olocene in italiano) è il termine della geologia statigrafica moderna che indica tutti i sedimenti deposti dopo l’ultimo glaciale (NB: è presumibile che noi viviamo in una fase interglaciale e che l’ultimo glaciale sia tale solo in termini relativi. A dispetto delle onnipresenti paranoie sul riscaldamento globale, il Futuro alla scala delle prossime decine di migliaia di anni prevede ancora Freddo intenso). Il fatto che il termine in italiano (postdiluviale) non abbia un equivalente “postdiluvial” è curioso, perché difatti “diluvial” esiste in inglese. Ma più che dalla curiosità linguistica, la mente del Demiurgo Ultrazionale è stata attratta dall’accostamento tra i due eventi citati sopra: il Diluvio Biblico e l’ultima Deglaciazione. Questo accostamento, nato durante la congestionata prima età della geologia, durante la quale il bisogno di conciliare sacre scritture ed evidenze scientifiche era un’esigenza individuale e sociale, rientra nella lunga e lungamente fraintesa serie di somiglianze tra la Storia Naturale (Cosmologia e Geologia) e la Genesi. Somiglianza per alcuni, rispecchiamento per altri. Essendo entrambi dei racconti sulle origini, non stupisce che essi abbiano dei punti in comune, ma ritenere, come fanno alcuni (troppi?), che i caratteri in comune tra le due storie implichino necessariamente l’esistenza di una Verità (Realtà?) comune che li fonderebbe entrambi è un semplicismo gratuito. Piuttosto, l’Ultrazionale considera questi tratti simili come l’evidenza di una comune origine psicologica presente nelle spiegazioni (mitiche e scientifiche). Rovesciando l’ottica, i due racconti sono simili solamente perché condividono la specie autrice, ed i suoi archetipi narrativi.
Tornando ai punti in comune tra Genesi e Storia Naturale, entrambe le storie affermano che ci fu un tempo durante il quale non esisteva la vita (un tempo “prebiotico”) e un tempo durante il quale esisteva la vita ma non l’uomo (un tempo “biotico preumano”). Le differenze più profonde sono nelle durate dei rispettivi tempi prebiotici e biotici preumani. Nella Genesi, il tempo prebiotico dura 2 giorni, contro i 12 miliardi di anni stimati dalla Storia Naturale tra l’origine (presunta) di tutto e la comparsa della vita (sulla Terra); così come il tempo biotico preumano, che dura dal terzo al sesto giorno dopo la creazione biblica, contro i tre miliardi e mezzo di anni che vanno dai primi organismi all’uomo (sia che si intenda uomo come ominide oppure come Homo sapiens, alla scala dei miliardi di anni la differenza è trascurabile). Anche stimando la durata relativa rispetto ai tempi considerati da ciascuna cosmologia, le differenze sono enormi. Usando l’arbitraria coincidenza di Diluvio e Deglaciazione Olocenica, i due racconti durano rispettivamente 1656 anni per la parte antidiluviana della Genesi (intervallo di tempo, basato sulla cronologia dei patriarchi antidiluviani, da Adamo all’anno del diluvio, il “seicentesimo delle vita di Noè”) e 15 miliardi di anni per la parte preolocenica della Storia Naturale (dal Big Bang all’Olocene, usando la stima approssimativa di 13-18 miliardi di anni fa per l’inizio dell’espansione delle galassie). Tradotto in percentuale: il tempo prebiotico dura lo 0,00033% del tempo antidiluviano, contro il 76,70% del tempo della Storia Naturale; il tempo biotico preumano dura lo 0,00050% del tempo antidiluviano contro il 23,30% del tempo nella Storia Naturale. Da notare che persino usando le date interne al racconto biblico la durata delle fasi preumane è infima rispetto alla storia umana (anche nei 4000 anni che si attribuivano gli antichi, il tempo preumano è un breve istante iniziale): a dar credito al racconto biblico, un universo senza umanità non avrebbe senso. Da qui il dubbio su quale dei due fattori sia causa dell’altro: fu la creazione di una cosmologia satura fino al limite di storia umana a produrre una visione antropocentrica dell’universo o viceversa? In ogni caso, è evidente l’intento consolatorio di qualunque cronologia cosmologica satura di Umanità.
Fortunatamente per noi, la Storia Naturale, il tentativo di ricostruzione oggettiva del passato, non fa sconti alla nostra connaturata egocentria (egocentria genetica proprio perché presente anche nella Genesi...) e ci ha mostrato senza pudori l’abisso del Tempo Profondo, durante il quale, per decine di migliaia di milioni di anni (detto così rende meglio), nulla di umano attraversò, osservò e contemplò l’indifferenza di un Creato autosufficiente.

Buone grigliate di primavera a tutti, ed Onore al Re Spiedo!

mercoledì 4 aprile 2007

Le Leggi della Pezza

Il valore di un cantante si determina prevalentemente dalla sua estensione vocale, dalla disinvoltura con la quale si destreggia tra acuti, bassi, apnee, beccheggi e rollii (cantare è nuotare e volare). Difatti, non è sufficiente che una reginetta del pop sappia gorgheggiare un motivetto sincopato per renderla una Callas (sarebbe più corretto chiamarle presidentessine del pop, dato che sono state elette per acclamazione mediocratica). Analogamente, il valore di un Ultrazionale sta nella sua estensione logica e morale, nella sua capacità di essere realistico (in questo caso mi rifaccio alla definizione “Kauerbachiana” del realismo: “descrizione semi-seria, tragicomica e problematica del quotidiano”) ed Oltre. Da qui la necessità di allargare progressivamente i confini del ragionabile, andando di là delle solite convenzioni che distinguono arbitrariamente tra discorsi “alti” e “bassi”.

Quanti di voi almeno una volta nella vita hanno “attaccato una pezza” ad un amico/amica per questioni di cuore? Tradotto: almeno una volta nella vita avete sentito l’irrefrenabile bisogno di partire in un monologo insensato con un amico/amica che fungeva da innocente serbatoio nel quale sfogare verbalmente l’ormone insoddisfatto secreto dal vostro sistema viscerale (metaforicamente chiamato “cuore”) deluso dalla realtà? E quanti almeno una volta nella vita si sono trovati nella parte dell’innocente serbatoio della pezza altrui? Quante volte vi siete trovati nell’angosciante ed inutile situazione di dover dare una risposta alle domande allucinanti dell’amico/amica pezzaiolo/a? Quante volte vi siete trovati di fronte un caso disperato di “due-di-picche” senza speranza, ma i vostri scrupoli amicali e la mancanza di sufficiente fegato vi hanno impedito di dire in faccia, subito, con freddezza, che non c’era altro da fare che dimenticare immediatamente tutta la storia? Quante volte avreste voluto disporre di un prontuario facile ed immediato dal quale ricavare una risposta che fosse al tempo stesso breve, corretta e, sopratutto deresponsabilizzante? Questo post si rivolge a tutti voi. La decennale esperienza con queste situazioni (sopratutto, fortunatamente, nel secondo ruolo di amico consolatore) ha permesso al Demiurgo Ultrazionale di sviluppare un Sistema Coerente di Leggi, dette “Leggi della Pezza”, capace di comprendere l’intero spettro delle situazioni pezzaiole e di fornire rapidamente delle risposte e delle interpretazioni dei fenomeni.
Proprio per evitare equivoci futuri, occorre subito precisare che:
1) Analogamente con la Meccanica Newtoniana, che non comprende i fenomeni alle scale quantistica e relativistica, le Leggi presentate qui sotto sono una prima versione Ristretta, suscettibile di estensione. Esse si occupano solamente dei casi di pezza generata da un Maschio (di qualunque età post-infantile) eterosessuale indotto alla pezza da una Donna (di qualunque età fertile) non necessariamente eterosessuale (ci sono anche pazzi che si innamorano delle lesbiche... ovvero auto-condannati sicuri ad attaccarvi la pezza). Pertanto le attuali Leggi della Pezza sono falsificabili nei casi di relazioni omosessuali e nelle relazioni eterosessuali nei quali la pezza è da parte di una donna. Attualmente, il Demiurgo Ultrazionale sta discutendo (seppur in maniera saltuaria) con alcune amiche (le stesse che diedero il primo avallo alla validità delle Leggi della Pezza dal fronte femminile) per determinare se le Leggi siano estendibili alla Donna e come debbano essere modificate e generalizzate.
2) Le Leggi della Pezza non spiegano nulla della Donna. Le stesse donne alle quali sono state esposte le Leggi concordano su questo punto. Le Leggi parlano della pezza, ovvero della condizione mentale di un individuo (maschile in questa versione, vedi punto sopra) in preda a crisi ormonale negativa e bisognoso di sentirsi dire qualcosa di sensato e/o consolatorio. Non sono un condensato di analisi psicologica femminile, né intendono esserlo.
3) Le Leggi della Pezza non si propongono di insegnare al “due-di-piccato” ad evitare future picche. Esse hanno come loro universo logico la situazione della pezza, e si limitano a descrivere all’amico/a a cui viene attaccata la pezza come uscirne il prima possibile con onore e limitando i danni per sé e per l’amico depresso. Siccome si propongono di risolvere la questione a lungo termine, le soluzioni risultano necessariamente molto spietate nel breve termine.

Leggi della Pezza (versione maschile eterosessuale)

I) Legge dell'Intensità Non-crescente.
Definizione:
Dato un momento i (i > 0), l'intensità dell'interesse Ii che una donna prova per un maschio sarà minore o uguale all'intensità iniziale I0.
Formalismo: Ii ≤ I0
Corollari:
1) Se non interessi subito, non interesserai dopo.
2) Prima ci provi, meglio è!
3) Il corteggiamento è ipocrisia (perché la donna ha già deciso all’inizio come considerarti).

II) Legge dell’Informazione Ridondante.
Definizione:
Dato un sistema coerente di risposte fornite da una donna, esso è suddivisibile in tre categorie logiche (Sì, No, Forse), che nella realtà corrispondono a due categorie fenomenologiche (Sì, No) secondo la seguente relazione:
Sì = Sì; No = No; Forse = No.
Corollari:
1) Qualunque spiegazione ti dà una donna, la realtà è più semplice.
2) Una donna che dice che “tra il bianco ed il nero c’è il grigio” sta mentendo!

III) Legge del Plusvalore (o Legge Autointortante).
Definizione:
Dato un sistema coerente di impressioni Vi prodotto da un maschio su una donna, esso sovrastima la realtà R (sia nel bene che nel male).
Formalismo: Vi > R
Corollari:
1) Fa sempre meno male di quanto sembri.
2) Prova ad immaginarla senza capelli o tra quaranta anni.
3) Sii scettico verso le tue certezze!


Finore, tutte le situazioni pezzaiole (ristrette al campo definito dalla precisazione 1) sono risultate riconducibili ad una delle tre Leggi o alla compresenza/influenza di almeno due delle tre Leggi.
Buona Pezza a Tutti!

martedì 3 aprile 2007

Altruismo come Algoritmo

La coppia che abita al piano sopra il mio ha da poco avuto un bambino. Più che il fiocco azzurro appeso dai genitori al portone principale, è il bambino stesso a comunicare la sua venuta su questa Terra. Con elvetica regolarità, ogni mattina, tra le 3 e le 5 del mattino, il neonato parte coi suoi vagiti in mono-soft-ovattato, seguiti dai tentativi eroici del padre di farlo riaddormentare con soft-ninna-nanne, e dal poco-soft andirivieni della madre da e per la cameretta (ho dedotto che sia la madre dall’acuto rumore dei passi... a meno che il padre, di notte, forse per errore, ancora semi-addormentato, non porti zoccoli da donna).
Il bambino è inconsapevole della rottura di gonadi che produce nei suoi genitori e nella vicinanza: ovviamente, i bambini sono l’Innocenza personificata, e sarebbe da idioti criminali pensare il contrario. Quello che invece sarebbe sbagliato è negare che i bambini siano l’Egoismo personificato. Tuttavia, molto diffusa è l’opinione che i bambini siano Buoni (non nel senso orchesco di saporiti), e che il bambino cattivo sia un aberrazione, un errore educativo, un prodotto della società egoista ed individualista. L’aberrazione palese è, a mio avviso, l’idea che i bambini (ed in generale) gli esseri umani nascano buoni (qualsiasi cosa possa significare “buono”).
Il bambino è l’essere più egoista che esista, ed è ovvio che sia così. Al bambino va insegnato l’altruismo, gli va inculcato, spesso invano, perché in lui è radicata la possessività, l’egocentrismo assoluto, l’ostilità verso i fratelli. Tanto la madre si sacrificherebbe per il suo cucciolo, tanto il figlio consuma e monopolizza l’esistenza della madre. Già dalla vita intrauterina, il bambino è un iperegoista approfittatore del corpo materno.

L’ingenua versione del Partito Maternalista dichiara che la madre dà la vita al bambino (“io ti ho creato”, “io ti ho fatto”, “io ti ho nutrito in grembo” ecc...), ma sarebbe molto più corretto iscriversi al Partito Figlista e dire: “io mi sono creato dentro di te”, “io mi sono costruito dentro di te”, “io mi sono nutrito dal tuo grembo”. Ognuno di noi nasce dall’incontro fortuito di due cellule sessuali dentro l’apparato riproduttore femminile (inutile ricordare che non tutti i rapporti sessuali portano a concepimento, se non altro perché non tutti i rapporti sessuali portano i gameti “giusti” al posto “giusto” al momento “giusto”). A parte quei casi in provetta che non si concludono in un impianto, la causa generante una vita appartiene ad una "frazione" dei rapporti sessuali eterosessuali. Di materno c’è solo un ovulo (e di paterno anche meno, uno spermatozoo), il resto dello sviluppo deriva totalmente dal nuovo individuo (molto spesso con l’aperta ostilità dell’organismo materno che lo ospita). L’embrione è un parassita: come parassita si impianta e (se non abortisce) vive a spese del sangue e del calore materno. Assorbe risorse con un’avidità che mai più potrà eguagliare dopo il parto, manipola e distorce il comportamento della madre, dirottandolo verso un compromesso il più possibile rivolto al suo programma di assemblaggio del nuovo corpo (spesso facendola vomitare, ingrassare, alterandone l’umore). L’analogia con quanto fanno i virus è interessante, ma, probabilmente, meno significativa di quanto possa sembrare: di fatto, qualunque processo naturale nel quale si incontrano/scontrano due diversi interessi richiama il rapporto madre ed embrione/feto.
Ma alla fine l’Amore vince, il Miracolo della Vita si ripete, la donna spinge, spinge, spinge e soffre come solo lei sa (e come sanno tutti quelli a cui è stato dato per errore un forte lassativo), ed il neonato viene al mondo. Da quel momento è un’escalation di egoismo. Tanto più è indifeso, tanto più il bambino pretende cibo, calore, protezione, affetto. Le sue forme dolci e coccolose, gli occhioni annacquati, le manine paffute, tutto sembra fatto apposta per far dimenticare agli adulti che gli stanno attorno (sopratutto alla madre) quanto il loro pupo sia un parassita egoista e senza scrupoli (appunto, inconsapevole, quindi innocente).
E non potrebbe essere altrimenti. Fintanto che la sua personalità non si è formata, e fintanto che la società che lo accoglie non gli ha insegnato ad essere altrimenti, il bambino è e rimane come tutti gli altri esseri viventi, ovvero un egoista totale. Non per caso, ma per necessità.
Se vogliamo trovare una spiegazione di ciò senza ricorrere a contorte mitologie più o meno manicheiste (che contrappongono Egoismo ed Altruismo come generali dell’eterna guerra tra Male e Bene, o che assumono un Peccato Originale a parziale giustificazione dell’apparente paradosso di un Mondo fatto Bene-Buono seppur Egoista), possiamo seguire un modello che è razionalmente soddisfacente ed empiricamente sostenibile. Esso afferma che:

1. Esistono strutture dotate di una seppur imperfetta capacità di
auto-replicazione.
2. Differenti strutture auto-replicanti si perpetuano nel
tempo con tassi differenti di propagazione.

Per chi non l’avesse già notato, le due affermazioni qui sopra sono niente altro che il paradigma darwiniano. Il darwinismo mostra che l’egoismo (o meglio, un comportamento egoista) ha una probabilità di perpetuazione nel tempo maggiore dell’altruismo. Certo, si sapeva da sempre (ecco perché si loda l’altruista, proprio perché fa qualcosa di difficile e non immediato) ma solo nell’ottica darwiniana si comprende la meccanicità amorale (né Buona né Cattiva, quindi Oltre) dell’egoismo, la sua causazione neutrale (non è necessario invocare l’esistenza del Diavolo per spiegare l’esistenza dell’egoismo). Ciò avviene “meccanicamente”, ovvero naturalmente, semplicemente perché l’egoista, proprio perché massimizza su sé tutte le risorse, può, a parità di condizioni, produrre un maggior numero di copie di sé (di egoisti) rispetto all’altruismo. In un mondo cieco e meccanico, caoticamente deterministico come quello in cui viviamo, l’altruismo, per quanto sia apparentemente “buono”, è fallimentare. Senza entrare nei dettagli della ricca letteratura sull’egoismo in natura e sull’apparente paradosso dell’evoluzione dei comportamenti altruistici (paradosso risolto dal darwinismo e ben trattato, tra gli altri, nello stracitato “Il Gene Egoista” di Dawkins), il ragionamento che mi preme è un altro, più squisitamente ultrazionale.
Innanzitutto, l’algoritmo darwiniano non dice nulla sulla volontà individuale di essere altruisti nella società umana: ci mostra solamente come l’altruismo sia innaturale, come non lo si possa ricercare nella Natura, né usarlo a fondamento della “natura umana”. Piuttosto, ci mostra come sia necessario educare all’altruismo, perché esso non sgorga spontaneamente nell’uomo, ma va indotto.
Una volta riconosciuto che l’altruismo può essere il risultato di un processo algoritmico egoista (ovvero, una volta riconosciuto che l’altruismo è un egoismo mascherato, l’assemblaggio di egoismi particolari), ed una volta che abbiamo riconosciuto che l’Altruismo puro (come la Bontà assoluta) non esiste, se non come favola ingenua (o peggio, ipocrita), come ci rapportiamo con quelli che hanno fatto del Mito della Bontà Assoluta il loro sigillo? E se scoprissimo che anche le affermazioni più altruistiche hanno un contenuto di egoismo?
In Biologia Evoluzionistica esiste una categoria di comportamenti detti ESS (acronimo tradotto dall’inglese con “strategia evolutivamente stabile”): si tratta di comportamenti individuali che, se vengono seguiti dalla maggioranza dei membri di una popolazione, persistono stabilmente nella popolazione, ma che se sono in minoranza sono destinati a scomparire. Ad esempio, la tendenza a dividere la preda con i compagni del branco è un ESS: se lo fanno in molti, il comportamento altruistico si conserva perché tutti gli altruisti hanno buona probabilità di ricevere dagli altri tanto quanto danno agli altri; mentre è fallimentare se è eseguito da pochi, perché in tal caso è più vantaggioso tenersi tutto per sé, piuttosto che rischiare di dare del cibo ad un ingrato che mai restituirà il favore.
Gli ESS sono algoritmi egoistici, processi guidati dall’onnipresente vincolo del vantaggio individuale (ripetendo: l’egoismo non è migliore “in sé”, ma solo più persistente e durevole dell’altruismo a parità di tutte le condizioni): come si legano con le filosofie-religioni dell’Altruismo-in-sé?
Da qualche parte nei Vangeli ci sono precetti come: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, “ama il tuo prossimo come te stesso”. (Forse non sono scritti proprio così, ma così mi insegnarono... devo cercare nei testi per averne conferma).
Ebbene, questi precetti (per essere onesti, non sono solamente cristiani ma furono prodotti in forme e modi simili da tutte le grandi filosofie. Ciò che di nuovo ci fu nel cristianesimo fu di includere l’intera umanità nel concetto di “altro”, di “prossimo”. Ovvero, il cristianesimo estese al massimo allora concepibile l’arbitrario limite tra chi è portatore di valore e chi no), apparentemente così alti e nobili, sono riconducibili a delle procedure algoritmiche fondate sull’egoismo, sono degli ESS.
Affermando contemporaneamente che: 1) bisogna amare il prossimo come sé stessi, 2) il concetto di prossimo va esteso all’umanità intera; non si fa altro che applicare una logica ESS: solo espandendo al massimo la popolazione nella quale l’atteggiamento altruistico si deve applicare, si ha una speranza che diventi un atteggiamento stabile e, quindi che se ne ottenga qualcosa di positivo indietro.
Delusi?
Forse il Fondatore del cristianesimo era più darwiniano di quanto siamo soliti considerare.